Settecento anni fa si spegneva “padre Dante” Alighieri

Settecento anni fa si spegneva “padre Dante” Alighieri

14 Settembre 2021 0 Di Alessandro Mazzaro

«Pel chiaro/silenzio il Capo Corvo/l’isola del Faro/scorgo; e più lontane,/forme d’aria nell’aria,/’isole del tuo sdegno,/o padre Dante,/la Capraia e la Gorgona» scrive D’Annunzio in Meriggio, riferendosi all’episodio del Ugolino e alla vendetta per la sua morte. Settecento anni fa, il 14 settembre 1321, moriva l’autore de la “Comedia”, divenuta anche “Divina” a seguito del giudizio di Boccaccio espresso nel “Trattatello in laude di Dante”, scritto fra il 1357 e il 1362 e stampato nel 1477, che le conferisce l’aggettivo celeberrimo. Settecento anni fa moriva Durante Alighieri.

Scrivere di chi ha fatto della scrittura la sua vita e influenzato così pesantemente le altre di chi gli ha succeduto, oltreché i suoi contemporanei, è un’impresa che definire ardua è estremamente riduttivo e offensivo. Come disse Fabrizio De André, intervistato da Gianni Minà a Blitz, «Se tu leggi Dante Alighieri, ad un certo punto ti si chiude veramente una porta di legno in faccia; ha scritto lui, non scrivo più». Ma proprio la scrittura, considerando il personaggio in questione, è probabilmente il minimo che possiamo fare per ricordarlo. Prima però, un po’ di biografia, con l’aiuto del Dizionario di Storia (2010) della Treccani.

Nato in una famiglia della milizia cittadina da Bella e Alighiero di Bellincione, D.A. studiò ancora bambino grammatica, quindi filosofia, probabilmente presso le scuole degli ordini mendicanti e forse si formò anche a Bologna. Cominciò giovane a scambiare poesie con i maggiori poeti del suo tempo mentre assolveva ai doveri che comportavano la sua cittadinanza e il suo ceto sociale. Partecipò ad alcune spedizioni dell’esercito, in qualità di cavaliere, e al comitato di accoglienza  di Carlo Martello, figlio maggiore di Carlo II d’Angiò nel 1294. Quando si mitigarono gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella che vietavano, tra le altre cose, la partecipazione alle magistrature più importanti a chiunque non fosse iscritto a un’arte, D.A., che aveva frequentato Brunetto Latini, notaio e cancelliere del Comune, condividendo con lui i valori politici del popolo, si iscrisse all’Arte dei medici e degli speziali, accedendo così a importanti consigli: il consiglio dei Cento, quello dei Trentasei del capitano e, nel 1300, il vertice del Comune, il priorato. A Firenze andava tuttavia intensificandosi la lotta tra le fazioni aristocratiche dei Bianchi (capeggiati dai Cerchi) e dei Neri (guidati dai Donati), i primi tendenti ad avvicinarsi al popolo e i secondi più interessati ad appoggiare Bonifacio VIII nei suoi tentativi di controllare Firenze. D.A., priore nel momento in cui lo scontro si era fatto particolarmente intenso, fu vicino ai Bianchi e sostenne la linea politica contraria alle mire del papa anche l’anno successivo. Per questa ragione, quando i Neri presero il sopravvento grazie all’arrivo delle truppe di Carlo di Valois, inviato dal papa, e, nel 1302, avviarono processi contro i precedenti rettori, D.A. fu accusato di malversazioni, bandito e condannato a morte in contumacia. Tra il 1302 e il 1304 D.A. rimase legato al gruppo degli esuli Bianchi a cui si erano uniti i ghibellini, e viaggiò in Toscana, a Forlì e a Verona, alla ricerca di alleati per poter rientrare a Firenze. Tentò anche la strada della pacificazione, che fallì come anche il rientro in forze nel 1304. D.A. abbandonò allora i Bianchi, fu forse a Parigi, probabilmente a Bologna, a Treviso, quindi in altre città della Marca trevigiana e poi di nuovo in Toscana dove soggiornò a Lucca. In questi anni mise mano a due trattati rimasti incompiuti, il Convivio e il De vulgari eloquentia, e iniziò la Commedia. Sulla scia dell’elezione di Enrico VII (1308), e del viaggio da questi intrapreso per l’incoronazione, scrisse alcune epistole in cui esortava i principi e i popoli d’Italia a sottomettersi e l’imperatore a punire i ribelli, e maturò la visione della storia che avrebbe esposto nella Commedia e nel De monarchia, secondo cui la Chiesa, usurpato – in seguito alla donazione di Costantino – il potere che l’impero aveva ricevuto da Dio per la cupidigia dei suoi pastori, aveva distrutto la pace degli uomini impedendo loro di realizzare il loro fine provvidenziale. Solo una monarchia universale avrebbe potuto ristabilire le condizioni perdute. Questa concezione non venne meno quando la morte di Enrico VII (1313) pose fine alle speranze che aveva suscitato. D.A. continuò a meditarla a Verona dove soggiornò dal 1312 al 1318 alla corte di Cangrande della Scala. Trascorse gli ultimi anni a Ravenna presso Guido Novello da Polenta. Lì Dante morirà il 14 settembre 1321, a cinquantasei anni, a causa di un attacco di malaria.

La Commedia, «il miglior libro scritto dagli uomini» secondo Borges, è il racconto del viaggio del poeta nell’aldilà, descritto da Dante secondo un ben preciso schema architettonico. Tutto l’oltretomba si dispone intorno a un asse ideale che parte dal centro di Gerusalemme e, attraverso la voragine infernale che si apre sotto la città, giunge al centro della Terra. Egli è accompagnato da Virgilio nell’Inferno e nel Purgatorio, e da Beatrice alla visione dei beati e di Dio nel Paradiso, donna identificabile in Beatrice Portinari, che Dante ci dice aver incontrato a nove anni e rivisto solo dopo altri nove, e morta poco più che ventiquattrenne. Nell’Epistola a Cangrande risulta chiara l’intenzione del poeta: rieducare l’umanità cercando di allontanarla dallo stato miserevole in cui giace per condurla a una felicità scrivendo un’opera in cui regna l’etica. Più volte nel corso del poema Dante parla di una missione affidatagli da Dio stesso, che ha acconsentito affinché facesse un viaggio oltre i peccati umani alla volta della purificazione. Tant’è che il viaggio termina con il celeberrimo verso: «l’amor che move il sole e l’altre stelle», dove «l’amor» è Dio stesso.

«D’aria e d’ingegno e di parlar diverso/per lo toscano suol cercando già/l’ospite desioso/dove giaccia colui per lo cui verso/il meonio cantor non è più solo». I versi citati sono di un altro gigante della nostra produzione poetico-letteraria: Giacomo Leopardi. Sono tratti da “Sopra il monumento di Dante”. In quel passaggio il recanatese afferma che il fiorentino faccia ora compagnia a Omero (il meonio cantor). È il 18 luglio 1818 quando viene resa pubblica l’intenzione di erigere un monumento a Dante. Leopardi scrive il canto con la volontà di rendersi sostenitore dell’iniziativa. Esprime qui condanna e disprezzo nei confronti della dominazione napoleonica che ha spogliato e saccheggiato l’Italia di immortali opere d’arte, ma anche una denuncia della codardia e dell’ignavia dei suoi contemporanei connazionali, che esorta a destarsi dall’indifferenza per le sorti della propria patria,  umiliata nei suoi desideri di libertà e mandata dai suoi tiranni, nella “meglio gioventù”, a morire con l’esercito francese nelle steppe ghiacciate della Russia. «Padre, se non ti sdegni,/mutato sei da quel che fosti in terra» scrive ancora Leopardi. Anche per lui Dante era un faro. Il cenotafio viene scoperto in Santa Croce il 24 marzo 1830. L’autore è Stefano Ricci, e ora si trova all’interno della chiesa.

Cosa ci lega così fortemente a questo personaggio irripetibile? Cosa spinge l’Italia e il mondo intero a ricordarlo da ormai settecento anni? Dante è simbolo di impegno civile e politico. Dante ha pesantemente contribuito linguisticamente all’evoluzione del linguaggio che oggi ci permette di comunicare. Ma Dante ha soprattutto eternato sfaccettature dell’animo umano in un’opera immortale. I versi della Divina Commedia saranno sempre motivo di riflessione, poiché hanno spogliato l’uomo e lo ha mostrato nudo ai suoi simili. Probabilmente è per questo che Borges diceva quanto scritto prima.

Rileggere Dante può essere motivo di sollievo e rinvigorimento, sia sul piano individuale che sul piano sociale. Rileggere Dante può essere una strada per rivalutare la nostra condizione e gli eventi che ci attanagliano, permettendoci forse di uscir «a riveder le stelle».

Di Francesco Mazzariello