Ventidue anni fa ci lasciava Fabrizio De André, l’amico fragile
11 Gennaio 2021Pino Daniele non è stato l’unico artista a lasciare la scena nei primi giorni di un anno nuovo. L’11 gennaio 1999 uno dei più grandi poeti del Novecento italiano chiudeva per sempre gli occhi a causa di un carcinoma polmonare. Ventidue anni fa si apriva una voragine nel panorama culturale italiano. Ventidue anni fa ci lasciava Fabrizio De André.
Raccontare Fabrizio De André è la tredicesima fatica di Ercole. Come si fa a parlare di qualcuno che a sua volta ha speso (quasi) tutta la vita a narrare? Da dove si comincia? Come si prosegue? Come si finisce? Ebbene, proveremo per una volta a capovolgere il suo ruolo.Da narratore a narrato. Perché gli è dovuto.
«Il 18 febbraio del 1940 come al solito, Giuseppe De André (il padre di Fabrizio) uscì di casa verso le 8 del mattino per recarsi al lavoro, lo attendeva una riunione all’ Istituto Palazzi a Genova, di cui era proprietario. Verso le 11 del mattino viene avvisato che sua moglie Luisa Amerio stava per partorire il suo secondo figlio, il primo Mauro (fratello di Fabrizio) era nato nel 1936 a Torino. Il professore, molto agitato per il parto, pensò di alleggerire l’atmosfera mettendo sul suo grammofono il Valzer Campestre di Gino Marinuzzi e proprio con questa musica alle ore 12 del 18 febbraio 1940 nacque Fabrizio Cristiano De André in Via De Nicolay 12 a Genova» (“Non per un dio ma nemmeno per gioco”, Luigi Viva, p.11). Inizia qui la storia di un artista unico nel suo genere, che di seguito cercheremo di raccontare umilmente.
«I Vangeli? Sono cinque: Marco, Luca, Matteo, Giovanni. E il Vangelo secondo De André» diceva Don Andrea Gallo. Un ateo, Fabrizio, che aveva più volte toccato il tema della fede. Come in “La buona novella”, di cui brano simbolo è “Il testamento di Tito”. Un pezzo che, con la lettura dei Vangeli apocrifi (come fatto con tutto l’LP del resto) e tramite gli occhi di Tito (il ladrone divenuto santo), cerca di sbugiardare l’intaccabile concezione assolutistica dei dieci comandamenti e chi li applica con ipocrisia; la canzone si chiude però con un passaggio intriso di cristianità, scaturito dall’incontro con Cristo, come «Nella pietà che non cede al rancore, Madre, ho imparato l’amore». Con questo album «scritto in pieno 1968, ho voluto dire ai miei coetanei: guardate che le nostre stesse lotte sono già state sostenute da un grande rivoluzionario, il più grande rivoluzionario della storia. Molti ritennero il mio disco anacronistico perché parlavo di Gesù Cristo nel pieno della rivolta studentesca. Ma tutti coloro che pretendono di fare rivoluzioni devono guardare all’insegnamento di Cristo, lui ha combattuto per una libertà integrale, piena di perdono» (in G. Mattei, Anima mia, Piemme 1998, p. 109). E sul tema dell’ipocrisia dei fedeli De André dice ancora «E per concludere: mi rivolgo soprattutto alle persone religiose ricordando loro che è più comune trovare gente che ama Dio che il proprio prossimo. Infatti Dio costa molto di meno» (“Sotto le ciglia chissà”, p.91).
Un artista che riesce a trarre da momenti difficili delle bellezze, come accaduto col sequestro in Sardegna (27 agosto 1979 – 21 dicembre 1979), vissuto insieme alla sua seconda moglie Dori Ghezzi, che dà vita a “Hotel Supramonte”. O come quando, dal naufragio della nave inglese London Valour nei pressi di casa sua, a Genova, nel 1970, scrive «E la radio di bordo è una sfera di cristallo, dice che il vento si farà lupo e il mare si farà sciacallo». O ancora, quando durante una serata di persone facoltose a Portobello di Gallura, nel 1974, percepisce l’impossibilità di comunicare con i presenti (che volevano solo che cantasse qualcosa, mentr’egli voleva disquisire della difficile situazione che l’Italia tutta viveva) e scrive, da ubriaco, il brano più introspettivo e aspro “Amico fragile”, ripreso poi insieme alla PFM e rivisitato dal punto di vista strumentale.
Le forti amicizie con Luigi Tenco (che lo porta, dopo il suicidio di quest’ultimo, a scrivere la toccante “Preghiera in Gennaio” a lui dedicata), con Fernanda Pivano (di cui usa, come materiale per “Non al denaro non all’amore né al cielo”, la sua traduzione di “Antologia di Spoon River”), con Francesco De Gregori (con cui scrive “Volume 8”), con Ivano Fossati (con cui scrive “Anime Salve”), con Paolo Villaggio (che gli attribuisce il noto soprannome di “Faber” a causa del suo amore per i pastelli e dell’assonanza del suo nome con la Faber-Castell), con Mauro Pagani (con cui scrive “Crêuza de mä”), sono solo alcuni dei legami che hanno lasciato un segno nella carriera e nella vita di De André.
Ancor più difficile sarebbe elencare la vita delle persone cambiata dalla produzione dell’artista genovese. Fabrizio ha infatti accompagnato diverse generazioni, avendo prodotto materiale per trent’anni, fino alla triste scomparsa del ’99. Un cantautore che si prese la briga, in una società ancora molto conservatrice (Pasolini concorderebbe), di parlare di prostitute, transessuali, omosessuali, impiccati, suicidi, drogati, carcerati, terroristi, soldati, rom e altre “cose che dimentico” (titolo di una canzone scritta col figlio Cristiano). Sono stati tanti i nobili artisti che il cantautorato italiano può vantare nella sua scena musicale. Probabilmente però, nessuno è paragonabile al poeta genovese che, per ciò che è stato finora citato, riuscì a ritagliarsi un posto che nessun altro ha potuto (o forse voluto) guadagnarsi. Nessun altro ha cercato di scuotere le coscienze come Fabrizio De André. Nessun altro ha avuto le spalle così larghe. Nessun altro si è pronunciato mai così dirompentemente. Questo mette Fabrizio De André e la sua raccolta di anime salve a cui ha cercato di restituire la dignità che gli altri hanno veementemente sottratto, una spanna al di sopra di tutti. E oggi che gli emarginati hanno assunto innumerevoli forme, il baratro che la sua dipartita ha lasciato si allarga a dismisura, e nessuno sembra poterlo colmare. Forse perché, semplicemente, nessuno ha potuto, può e potrà mai farlo.
L’ultima parola la lasciamo a lui, con un campione di sensibilità.