La riconquista talebana dell’Afghanistan venti anni dopo le Torri Gemelle

La riconquista talebana dell’Afghanistan venti anni dopo le Torri Gemelle

19 Agosto 2021 0 Di Alessandro Mazzaro

Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei tanti afgani che cercavano di aggrapparsi a un aereo in fase di decollo, a causa della disperazione che li ha spinti a fare di tutto pur di lasciare il Paese riconquistato dai talebani. Immagini seguite da altre ancora più terrificanti, in cui alcuni di loro precipitano in volo. Momenti che evocano subito alla mente chi si gettava dalle Torri Gemelle a seguito dell’attentato dell’11 settembre di venti anni fa.

Quello che è successo in questi giorni è il risultato (ma probabilmente non la fine) di quello che accadde proprio al World Trade Center nel 2001. Le immagini dell’attentato, delle vittime, del video nel quale bin Laden rivendica l’operazione, circolano per il globo a velocità inaudita. Negli Stati Uniti provocano uno shock collettivo di grande portata: per la prima volta un attacco contro gli Stati Uniti viene portato direttamente dentro i loro confini. Nei paesi islamici le reazioni sono contrastanti. Vi è chi, anche molto apertamente, si abbandona a scene di giubilo; ma viso no anche molti che criticano o prendono nettamente le distanze. Soprattutto i governi degli Stati laici dell’area dell’islam, del resto uno degli obiettivi polemici di Al-Qaeda, non approvano l’iniziativa. Dopo un primo momento di smarrimento il presidente degli Stati Uniti, George Bush jr. (1946) – figlio di Bush sr.-, eletto appena qualche mese prima, organizza un’azione di risposta che si concentra sull’Afghanistan governato dai talebani, sospettato di ospitare le basi di Al-Qaeda: sospetto che è ben fondato. Bush ottiene il sostegno dell’Onu, la collaborazione della Nato, e l’appoggio di paesi islamici come il Pakistan e l’Arabia Saudita. Il 7 ottobre, quattro settimane dopo l’attentato, iniziano le operazioni militari contro l’Afghanistan, che vedono coinvolti, oltre agli americani, anche reparti britannici e – con compiti prevalentemente logistici – quelli di altri paesi della Nato, fra cui l’Italia. L’impegno degli Usa e dei loro alleati si limita, salvo circoscritte azioni di commandos, ai bombardamenti aerei. Il grosso dell’offensiva di terra è affidato ai combattenti (mujahiddin) delle fazioni afghane avverse ai talebani, che da anni si battevano contro il regime integralista. Dopo una stasi iniziale, l’offensiva è rapida e vittoriosa: Kabul viene occupata il 13 novembre e il 7 dicembre cadde Kandahar, ultima roccaforte del regime, mentre il mullah Ornar, capo spirituale dei talebani, e Osama bin Laden (la cui cattura costituiva l’obiettivo ufficiale e primario dell’azione militare) riuscivano a far perdere le loro tracce. Frattanto gli esponenti delle diverse fazioni vittoriose (divise fra loro in base a linee etniche e tribali oltre che politiche) si incontrano a Bonn in Germania per stabilire il futuro politico del paese: un nuovo governo, presieduto da Hamid Karzai, fu insediato a Kabul il 22 dicembre. Il nuovo regime, e che avrebbe dovuto portare l’Afghanistan ad adottare istituzioni pienamente democratiche, era tuttavia ancora fragile; l’area era ancora occupata da una forza militare multinazionale (composta soprattutto da soldati statunitensi e britannici, con minori contingenti tedeschi, canadesi, italiani, olandesi e francesi), ed era costantemente esposta ad attacchi di guerriglieri talebani.

Quanto scritto è il background storico minimo, ovviamente. Arriviamo però a oggi. Parlando di “offensiva” talebana, si omette una realtà generale: da Mazar-i-Sharif, principale centro nel nord, a Jalalabad al confine col Pakistan, i distretti e le capitali provinciali dell’Afghanistan sono cadute una dopo l’altra senza combattere. I soldati del cosiddetto “esercito afghano” si sono arresi senza sparare un colpo. I talebani, con una strategia utilizzata già negli anni Novanta, avevano promesso di risparmiare coloro che avessero deposto le armi e consentito loro l’ingresso pacifico nei centri abitati. Inoltre era abbastanza diffusa l’impressione che da Kabul o dalle capitali provinciali i rinforzi non sarebbero arrivati. Ma ciò non basta a spiegare le proporzioni di una disfatta così monumentale e storca da meritare il paragone con il Vietnam. La vittoria e il ritorno dei talebani alla guida del paese è legata in ultima analisi dalla debolezza delle forze armate, nonostante duemila miliardi di dollari stanziati in vent’anni per addestramento ed equipaggiamenti, e dalla mancanza di legittimità delle istituzioni afghane. Inoltre la firma dell’accordo di Doha, nel febbraio 2020, progettato dall’amministrazione Trump con l’esclusione – di fatto – del governo afghano, ha demoralizzato molte forze afgane, rafforzando gli impulsi corrotti di molti funzionari e la loro debole lealtà al governo centrale. “Molti hanno visto in quel documento l’inizio della fine”, confida al Washington Post un ufficiale dell’esercito “e ognuno ha cominciato a badare solo a se stesso. Era come se [gli Stati Uniti] ci avessero abbandonato”.

Quando la ricorrenza dei venti anni dall’attentato del 2001 era a distanza di una manciata di settimane, la disfatta afghana e il ritorno dei talebani a Kabul riaccendono fuochi incandescenti per l’America. “Cosa abbiamo sbagliato”, “disastro Afghanistan”, “Resa a Kabul” sono solo alcuni dei titoli delle principali testate americane, come The Atlantic. La più lunga e dispendiosa guerra che gli Stati Uniti abbiano mai condotto all’estero, si conclude con una débâcle  e l’amministrazione Biden viene chiamata a prendersi le responsabilità della gestione di un ritiro che il Wall Street Journal definisce, senza mezzi termini “un completo fallimento”. La scadenza per il ritiro fissata da Trump “è stata un errore”, osserva il quotidiano conservatore, “ma Biden avrebbe potuto aggirarla come ha fatto con numerose decisioni del suo predecessore” invece ordinò un ritiro rapido e totale all’inizio dell’autunno, in tempo per la data simbolica dell’11 settembre”. Ma la rapida riconquista di Kabul da parte dei talebani dopo due decenni “è, soprattutto, indicibilmente tragica”, scrive il comitato editoriale del New York Times . “Tragico perché il sogno americano di essere la ‘nazione indispensabile’ nel plasmare un mondo in cui i valori dei diritti civili, l’emancipazione femminile e la tolleranza religiosa si sono rivelati proprio questo: un sogno” ed “è tanto più tragico a causa della certezza che molti degli afgani che hanno lavorato con le forze americane e hanno accettato il sogno – e specialmente le ragazze e le donne che avevano abbracciato una misura di uguaglianza – sono stati lasciati alla mercé di uno spietato nemico”. Capovolgendo la prospettiva, la questione cambia e negli Stati Uniti irrompe nel dibattito politico interno: “L’unica domanda che resta è quanto si dimostrerà dannosa [per Joe Biden] questa immagine di sconfitta” osserva David E. Sanger. “O se gli americani che hanno esultato ai raduni della campagna elettorale del 2020 quando sia Trump che Biden promettevano di uscire dall’Afghanistan, scrolleranno le spalle e diranno che doveva finire comunque, anche se è finita male”.

«Non ci sarà affatto un sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro Paese», ha spiegato Hashimi, un alto funzionario talebano, che continua «non discuteremo quale tipo di sistema politico dovremo applicare in Afghanistan perché è chiaro. È la legge della Sharia e basta».

“I talebani hanno iniziato a perquisire casa per casa”, puntano ad “esecuzioni mirate. La gente a Kabul è terrorizzata”. È il drammatico racconto fatto dall’ambasciatore afghano Ghulam Isaczai, durante il suo intervento alla riunione di emergenza delle Nazioni Unite”. E il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è detto “particolarmente preoccupato” per le notizie delle “crescenti violazioni contro le donne e le ragazze afghane”.

Si prospetta uno scenario cupo e indicibilmente delicato, che avrà conseguenze serissime sul breve e sul lungo periodo.

Di Francesco Mazzariello

Bibliografia e fonti:

“Il mondo contemporaneo – Dal 1848 a oggi”, Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, Editori Laterza

“L’età contemporanea – Dalla Grande Guerra a oggi”, Alberto Mario Banti, Editori Laterza

Ispi, il ritorno dei talebani