Settantacinque anni dal 2 giugno 1946: la rinascita ieri e oggi

Settantacinque anni dal 2 giugno 1946: la rinascita ieri e oggi

2 Giugno 2021 0 Di Alessandro Mazzaro

Sono oggi trascorsi settantacinque anni da quando, il 2 giugno 1946, i cittadini scelsero di definire la forma del nuovo Stato, privilegiando il modello repubblicano.

Trascorsa l’euforia dei primi mesi successivi alla Liberazione, ci si dovette scontrare con la realtà delle cose: ripartire dalla cenere della deflagrazione della guerra, sembrava la tredicesima fatica di Ercole. Al Nord, le industrie erano riuscite a preservare gran parte delle loro capacità produttive, ma le materie prime e l’energia elettrica per rimette in funzione gli impianti scarseggiava fortemente; la rete stradale e le linee ferroviarie erano quasi interamente danneggiate e oltre un’abitazione su tre era distrutta o danneggiata. I generi alimentari erano limitati e costosi. Dilagavano la criminalità organizzata e la microdelinquenza. Punto di partenza per risolvere l’infinità di problematiche doveva essere, per forza di cose, l’assetto istituzionale. Il governo De Gasperi aveva infatti indetto per il 2 giugno 1946 una doppia tornata elettorale: le elezioni per l’Assemblea costituente e il referendum sulla forma istituzionale dello Stato.

Al Sud la guerra era finita nell’estate del 1943. Al Nord invece era durata due lunghi e terribili anni di più. C’erano stati altri ventuno mesi di bombardamenti, di rastrellamenti, di deportazioni; c’era stata l’occupazione nazista, la Repubblica di Salò, lo sterminio degli ebrei, la Resistenza. Di conseguenza nelle due parti del paese il fascismo e l’antifascismo erano visti in maniera molto diversa. Al Sud il fascismo era stato un regime autoritario, molto repressivo e certamente responsabile di una guerra persa. Gli venivano però riconosciuti dei punti a favore: aveva promosso investimenti nelle campagne (è vero però che aveva fatto piuttosto poco per mantenere l’impegno di una riforma agraria); in Sicilia aveva lottato contro la mafia; e soprattutto aveva incarnato un’idea di sviluppo e di entusiasmo patriottico, per quanto fondato sull’aggressione coloniale. L’antifascismo invece era stato o un’opposizione conservatrice, o una cospirazione di pochi intellettuali. E la sinistra era in minoranza: del resto non ce n’era la base naturale, e cioè un movimento operaio forte, perché l’Italia meridionale era un paese agricolo. Al Nord invece il fascismo, alleato dei nazisti, era stato corresponsabile di violenze terribili, e si era quindi tragicamente squalificato. Viceversa l’antifascismo era diventato largamente maggioritario, e in due anni di Resistenza aveva messo radici e aveva appreso a fare politica, a discutere con gli alleati che stavano vincendo la guerra, ad assumersi responsabilità. L’elezione vide la preferenza della repubblica al Nord (66,2%) e della monarchia al Sud (63,8%). Questo anche e soprattutto a causa di quanto scritto finora. Le elezioni per la formazione dell’Assemblea costituente, videro l’assegnazione di 207 seggi alla Democrazia Cristiana, 115 al Partito Socialista Italiano e 104 al Partito Comunista. Fra gli altri, 41 seggi andarono ai liberali, 23 ai repubblicani e 7 agli azionisti. Dopo appena un anno e mezzo, l’Assemblea, seppur con innumerevoli conflitti su questioni chiave, portò a termine il suo compito: redigere quella che sarebbe stata (e tuttora è) la Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948.

Nel 1946 gli aventi diritto al voto erano 28 milioni (28.005.449), i votanti furono quasi 25 milioni (24.946.878), pari all’89,08%. I voti validi 23.437.143, di questi 12.718.641 (pari al 54,27%) si espressero a favore della Repubblica, 10.718.502 (pari al 45,73%) a favore della Monarchia. È importante sottolineare che quel referendum fu la prima occasione di voto per le donne, fino ad allora mai tenute in considerazione di poter decidere. I giornali, e il dato è confermato dai risultati diramati dal Ministero dell’Interno, registravano un’affluenza alle urne che di provincia in provincia variava dal 75% al 90% degli aventi diritto. Nella realtà, guardando alla concretezza dei numeri, la frattura dell’elettorato sulla questione istituzionale fu radicale. Le ragioni furono certamente fondate sulle incognite politiche e socio-economiche che la scelta repubblicana per molti rappresentava, ma anche legate alle disparità con cui la dura esperienza della guerra aveva toccato le diverse zone del Paese e i diversi strati della popolazione, oltre che dettate dal radicamento di una istituzione comunque identificata da molti con la propria idea di nazione. Il passaggio dalla monarchia alla Repubblica avvenne in un clima di tensione, tra polemiche sulla regolarità del referendum, accuse di brogli, polemiche sulla stampa, ricorsi e reclami. In virtù dei risultati ed esaurita la valutazione dei ricorsi, il 18 giugno 1946 la Corte di Cassazione proclamò in modo ufficiale la nascita della Repubblica Italiana. L’Italia cessava di essere una monarchia e diventava una Repubblica.

Nonostante le divergenze di visione, dunque, le basi per la repubblica vennero gettate. Iniziava così il tentativo di resurrezione italiana.

Volendo azzardare un paragone forte, potremmo dire che oggi viviamo una situazione che ha dei tratti in comune con quel marasma. Veniamo da anni devastanti, in cui siamo stati attraversati da crisi finanziarie (su tutte quella del 2008), diffusissima criminalità che si confonde spesso con lo Stato (Paolo Borsellino docet), e la recentissima pandemia, che da più di un anno a questa parte ci strema psicologicamente, economicamente, sanitariamente e su altri piani di cui neanche siamo a conoscenza.  Per fortuna l’Ocse ci ha appena detto che il Pil italiano crescerà del 4,5% nel 2021 e del 4,4% nel 2022; ci sono segnali incoraggianti, e ci aspetta una stagione che è linfa vitale per il turismo. I più colpiti dal Covid-19, direttamente, sono stati gli anziani, come sappiamo. Ma gli effetti più sotterranei toccano i giovani.

«Secondo le nostre analisi, per il 2020, il tasso di disoccupazione per le persone fra i 15 ed i 24 anni sarà oltre il 33%, contro una media europea del 12.5%, quasi il triplo. È il primo segnale di un meccanismo di depauperamento più ampio: soprattutto nel sud del paese le possibilità di lavoro sono ridotte, specie per i lavori qualificati. Chi ha la possibilità di trovare un lavoro interessante per la propria carriera se ne va. Forse non sarebbe neppure drammatico, se non fosse che non arrivano altri. Non siamo attrattivi per i talenti del mondo e quelli che rimangono non hanno opportunità di avanzare, spesso neppure di impiegarsi. Nel quadro va inserito il preoccupante numero di inattivi, i cosiddetti Neet, che per i giovani arriva al 40%, e la crescita della disoccupazione giovanile: il miglioramento registrato tra il febbraio 2014 e il febbraio 2020 è stato completamente cancellato dalla riduzione avvenuta tra febbraio e giugno 2020». Sono le parole di Massimiliano Tarantino, presidente della Jobless society della Fondazione Feltrinelli.

I ragazzi oggi, dopo la pandemia, vedono il loro futuro compromesso più che mai, e a nessuno sembra essere importato particolarmente. Un esempio? In oltre un anno di Covid-19 nessuno ha mai parlato di università. Abbiamo abbandonato milioni di ragazzi a un deprimente e atrofizzante vis-à-vis con i monitor, senza mai considerare, neanche per qualche settimana, l’idea di fare il possibile perché almeno una parte di loro tornasse in presenza. Ragazzi che in un anno, poco meno o poco più, si troveranno nel mondo del lavoro. Ma ci sarà posto per loro, o ci toccherà assistere a un rincaro della dose di flussi migratori di “cervelli in fuga”? La risposta, temiamo di saperla. Ma alla fine è la solita vecchia storia: sono ragazzi, c’è tempo, hanno tutta la vita davanti. Il problema è quale.

Di Francesco Mazzariello