Quarantacinque anni fa la morte di Pier Paolo Pasolini
2 Novembre 2020«È una storia da dimenticare, è una storia da non raccontare, è una storia un po’ complicata, è una storia sbagliata» cantava Fabrizio De André in “Una storia sbagliata”, ultimo singolo ufficiale, uscito nel 1980.
«È una canzone su commissione, forse l’unica che mi è stata commissionata. Mi fu chiesta da Franco Biancacci, a quel tempo a Rai Due, come sigla di due documentari-inchiesta sulle morti di Pasolini e di Wilma Montesi. In quel tempo, se non ricordo male, stavo cominciando a scrivere con Massimo Bubola l’ellepì che fu chiamato “L’indiano” (quello per intenderci che ha come copertina quel quadro di Remington che rappresenta un indiano a cavallo). E così gli ho chiesto di collaborare anche a questo lavoro. Ricordo che decidemmo tout-court di fare la canzone su Pasolini, e non tanto perché non ci importasse niente della morte della povera Montesi, ma per il fatto che a noi che scrivevamo canzoni, come credo d’altra parte a tutti coloro che si sentivano in qualche misura legati al mondo della letteratura e dello spettacolo, la morte di Pasolini ci aveva resi quasi come orfani. Ne avevamo vissuto la scomparsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse mancato un parente stretto» disse il cantautore e poeta genovese (Doriano Fasoli, “Fabrizio De André. Passaggi di tempo”, 2009).
Era la notte che divideva i santi dai morti. Era il 1975. Sulla spiaggia deserta (dato il periodo dell’anno) dell’Idroscalo di Ostia viene ritrovato un cadavere alle 06:30. È il corpo esanime di Pier Paolo Pasolini, picchiato ferocemente e investito più volte dalla sua Alfa Romeo 2000 GT. Il primo a riconoscerlo fu Ninetto Davoli, amico e volto di molti suoi film. Il primo a essere accusato dell’omicidio fu Pino Pelosi. Il diciassettenne, fermato dalla polizia, confessò di aver ucciso Pasolini a seguito della volontà dello scrittore cinquantatreenne di avere un rapporto sessuale. Effettivamente Pasolini era stato visto la sera antecedente l’episodio nel ristorante “Il Biondo Tevere” con un ragazzo, come ha recentemente raccontato anche la proprietaria del locale. Ma la versione del giovane è dubbia e raffazzonata. Gli abiti del ragazzo non presentano tracce di sangue ed è ampiamente improbabile che un uomo della stazza di Pasolini non sia riuscito a difendersi. La sentenza di primo grado a carico di Pelosi lo condanna quindi per omicidio volontario in concorso con ignoti. Che ancor oggi sono tali.
Il collaboratore di Pasolini Sergio Citti ha rivelato che il regista sarebbe andato all’idroscalo di Ostia per via di un ricatto subito sul suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma, allora nelle ultimissime fasi della post-produzione. In quel periodo Pasolini sta anche ultimando “Petrolio”, il romanzo sul Potere che la sua fine barbara gli impedì di terminare. In questa scrittura Pasolini riprende ampi paragrafi di “Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente”, una documentata inchiesta sul potentissimo e invisibile presidente di Eni e Montedison succeduto a Enrico Mattei: Eugenio Cefis, una delle figure più inquietanti e controverse della storia repubblicana. Nel 1974 si scoprirà che il capo dei Servizi segreti Vito Miceli – tessera P2 n.1605 – quotidianamente inoltrava informative a Eugenio Cefis, quasi che il Sid fosse la personale polizia privata di Eugenio Cefis che poteva dunque monitorare politici, industriali, giornalisti, aziende pubbliche e private. Temi brucianti, che Pasolini tratta contemporaneamente sia nel romanzo Petrolio che sulle pagine del Corriere della Sera. Petrolio esce come opera postuma incompiuta e frammentata nel 1992.
A sorpresa, nel 2005, Pelosi ritratta e dopo esattamente 30anni, dichiara di non essere stato solo quella tragica notte. La novità sostanziale che emerge dal racconto di Pelosi è che con lui non c’era una banda di ragazzini, ma uomini dall’accento siciliano non ben identificati, a bordo di un’auto targata Catania. Queste persone avrebbero massacrato Pasolini e il ragazzo sarebbe stato solo un capro espiatorio. Un riscontro interessante al nuovo racconto di Pelosi è che nei giorni seguenti l’omicidio una telefonata anonima alla Polizia segnalò che la notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975 una macchina targata Catania seguiva l’Alfa di Pasolini. Nel 2016 la dottoressa Marina Baldi, nota genetista forense, su richiesta dell’avvocato Stefano Maccioni, legale della famiglia Pasolini, ha valutato la perizia tecnico-biologica effettuata nel 2013 dal RIS di Roma, contenente i risultati delle analisi genetiche sui reperti in sequestro e forniti dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Roma. Ebbene, sono emersi 5 profili genetici riconducibili a 5 soggetti ignoti di cui uno che, nel momento in cui c’è stato il contatto con la vittima era ferito, con ferita recente perché perdeva sangue. La genetista Baldi nella sua relazione ritiene che si debba tentare di eseguire nuovi test con i campioni di DNA delle persone ignote individuate sui reperti, soprattutto alla luce delle novità in campo tecnico, come la Next Generation Sequencing (NGS) con amplificazione massiva parallela, che consente analisi di pannelli di geni di dimensioni inimmaginabili fino a qualche anno fa. Una realtà in campo scientifico che permette le associazioni di alcuni assetti genetici con alcune caratteristiche fisiche, quale colore degli occhi, della pelle, dei capelli ed alcuni tratti somatici.
Un’altra storia la cui ricerca e ufficializzazione della verità risulta complessa come per un bambino compiere le dodici fatiche di Ercole. L’unica certezza è che quella notte di quarantacinque anni fa, il cuore di Pier Paolo Pasolini ha smesso di battere. Il cuore di un personaggio pubblico unico nel suo genere: comunista, cattolico e omosessuale. Personaggio profetico, cinico, sempre lucido, spesso divisivo. Spessissimo. Come quando si espresse contro l’aborto proprio nel 1975 sul Corriere della Sera. Come quando litigò con Italo Calvino, ancora nel 1975, sul concetto di lotta all’omologazione. È questa la mancanza che più di tutte oggi si sente: quella di figure con la schiena dritta, intellettualmente oneste. Moravia disse che «la funzione sociale dell’intellettuale è di essere antisociale». È pesante l’assenza di figure alle quali pur non condividendo una riflessione gliene venisse attribuita una certa validità. Oggigiorno il dibattito pubblico è sempre più contenutisticamente scarno. E nell’era Covid-19 la situazione sembra drasticamente peggiorare. È una corsa a chi mangia l’ultimo brandello di carne, una competizione a chi strappa più consenso possibile, una gara verso se stessi che non conduce a null’altro fuori che un malsano individualismo.
Oggi, a quarantacinque anni dalla scomparsa di Pier Paolo Pasolini, invitiamo i giovani, unica scialuppa di salvataggio, a riscoprire i suoi film, i suoi libri, le sue interviste. E lo facciamo sperando che questo passaggio di “Lettere luterane” sia da sprone.
«Siamo stanchi di diventare giovani seri,
o contenti per forza, o criminali, o nevrotici:
vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare
qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare.
Non vogliamo essere subito già così sicuri.
Non vogliamo essere subito già così senza sogni.»