L’11 giugno 1984 moriva Enrico Berlinguer
11 Giugno 2020«Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta». Chi ha vissuto quegli anni, sa esattamente chi si pronunciò così sulla scomparsa di chi. Ovviamente, parliamo del commosso saluto di Sandro Pertini ai funerali di Enrico Berlinguer. Dalla scomparsa del segretario del Partito Comunista Italiano sono passati trentasei anni. Per capire perché quell’11 giugno 1984 scosse così tanto l’opinione pubblica, è necessario quantomeno partire dal 7 giugno dello stesso anno.
Padova, piazza della Frutta. Si stava tenendo un comizio del PCI. A parlare era, ovviamente, dato il ruolo ricoperto, Enrico Berlinguer. Camicia bianca, giacca grigia, cravatta scura, occhiali rettangolari. Di lì a dieci giorni, il 17 giugno, ci sarebbero state le elezioni europee. Enrico ha 62 anni, e non sembra star benissimo quella mattina. Ma non può fermarsi. Non vuole fermarsi. Di tanto in tanto accosta il fazzoletto alla bocca. Beve un bicchiere d’acqua. E pronuncia passaggi poi divenuti celebri, come «Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La prova per questo obbiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita». O altri divenuti celeberrimi, su tutti il «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo… è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà». Ma più parla, peggio evolve il suo stato psicofisico. Di fatti, le ultime parole succitate sono anche le sue ultime parole. Poi deve fermarsi. O meglio, probabilmente è il corpo a dirgli di fermarsi: non è una scelta, è un’imposizione fisica incontrovertibile. Di lì a breve viene colto da un ictus. Verrà accompagnato al quarto piano dell’Hotel Plaza, dove alloggiava. Si addormentò ed entrò in stato comatoso, restandoci quattro giorni. «Pensavamo fosse uno scherzo» dirà Davide Mazzon, giovane medico al Reparto Rianimazione dell’Ospedale Giustinianeo di Padova, in servizio di guardia proprio quel giovedì 7 Giugno 1984. L’11 giugno 1984, alle 12:45, Enrico Berlinguer fu dichiarato morto. Riprendendo le parole di Benigni dirà Natalia Ginzburg: «Abbiamo tutti pensato non soltanto che era successa una “tragedia politica”, ma abbiamo pensato che la sua morte era per ognuno di noi una disgrazia personale, una perdita personale. Ci siamo accorti che ognuno di noi aveva con lui un rapporto fiducioso e confidenziale, anche se ci eravamo limitati ad ascoltarlo nella folla d’una piazza. Fu un momento in cui, come aveva detto Benigni, “il firmamento bruciava”. La sensazione che “bruciava il firmamento”, in quei giorni, l’abbiamo avuta tutti». Al suo funerale, il 13 giugno 1984, parteciparono fra il milione e il milione e mezzo di persone.
È proprio questo quello che oggi dovrebbe essere motivo di riflessione. Certo, gli ultimi momenti di Berlinguer sono stati singolari e toccanti, di fatti le ultime persone che ha visto sono state le “sue” persone, di fronte alle quali ha pronunciato le sue ultime parole. Ma possiamo attribuire “soltanto” a questo il commosso saluto che l’Italia intera gli dedicò? Non scenderemo nel merito delle questioni politiche: non è il tema fulcro dell’articolo e ci sembrerebbe anche irrispettoso nel giorno della sua commemorazione scatenare dibattiti ideologici. Quello che dovremmo chiederci, a nostro avviso, è: si è ancora in grado, oggigiorno, di generare appartenenza? Si è ancora in grado di provare empatia (quantomeno umana) per personaggi politici e ideologie non appartenenti al proprio alveo culturale? Si è ancora in grado di stabilire un dialogo fra parti contrapposte? Alla luce della nostra quotidianità, specie sui social e in momenti di tensione e incertezza come quelli che viviamo da qualche mese a questa parte (e che ancora vivremo), la risposta non sembrerebbe essere confortante. L’impressione è che il dibattito (ormai rarefatto) serva solo come strumento per affermare se stessi sull’interlocutore. C’è davvero la volontà di confrontarsi o c’è solo il piacere di scontrarsi? Forse, mai come in questo periodo, riprendere discussioni contenutisticamente rilevanti e formalmente adeguate, equivarrebbe a gettare le fondamenta di una rinascita della democrazia (ammesso che sia mai nata del tutto). Sarebbe infine interessante vedere come andrebbero le cose se si riprendesse un concetto esposto proprio da Berlinguer (che nulla ha a che vedere con schieramenti ideologici), e cioè che «ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non uno per uno». Se ricominciassimo a pensare un futuro insieme, partendo quindi dal rispettoso confronto base della repubblica democratica nata il 2 giugno, e «dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti», come direbbe Habermas, renderemmo anche il presente più vivibile.