La Liberazione: dallo sbarco in Normandia al 25 aprile 1945

La Liberazione: dallo sbarco in Normandia al 25 aprile 1945

25 Aprile 2021 0 Di Alessandro Mazzaro

L’ultimo dei tre appuntamenti non può che essere sulle battute finali del conflitto. Partiremo dallo sbarco in Normandia e arriveremo al 25 aprile 1945.

All’inizio del 1944 era ormai chiaro che, a meno di una straordinaria novità in materia di armamenti, i tedeschi e i giapponesi avrebbero perso la guerra. L’Armata Rossa aveva ormai riconquistato gran parte dei territori perduti tre anni prima, e avanzava rapidamente a sudovest, in direzione della penisola balcanica. La Germania doveva ora inviare decine di divisioni sul nuovo fronte italiano, fra Napoli e Roma, dove lo scontro si fece molto aspro intorno al monastero di Monte Cassino. Gli Alleati sfondarono quel fronte solo in primavera e liberarono Roma, il 4 giugno. Due giorni dopo cominciava la più grande operazione aeronavale di tutti i tempi, con cui gli angloamericani sbarcavano in Normandia e iniziavano la riconquista della Francia. Nelle prime ore del mattino del 6 giugno 1944, mentre tre divisioni aerotrasportate, provenienti dall’Inghilterra, piombavano su punti più delicati della penisola normanna, portando lo scompiglio e la distruzione nelle retrovie avversarie, ben 4000 navi (per un terzo americane, e per due terzi inglesi, appoggiate da un nerbo formidabile di navi da guerra e scortate da un’imponente flotta aerea, comprendente non meno di 11.000 apparecchi, da caccia e da bombardamento) si avvicinavano alla costa – in cinque diversi tratti di essa, sopra un fronte di circa un centinaio di chilometri, tra la foce della Dive e Montebourg, nel Cotentin – ed iniziavano lo sbarco delle truppe. La battaglia che aveva avuto inizio nella zona di sbarco il giorno 7, già il giorno 11 appariva perduta per i Tedeschi. Respinti tutti gli attacchi davanti a Caen e ad ovest di Cabourg, le truppe britanniche avevano mantenuto tutte le loro posizioni ed erano riuscite anche a collegarsi con parte delle truppe americane, che, con il valido appoggio delle forze aeree e navali, avevano potuto aver ragione della resistenza avversaria. I Tedeschi tentavano, nella giornata del 7 agosto, un violento contrattacco, con quattro divisioni corazzate, tra Mortain e Sourdeval, in direzione di Avranches, ma dopo un’avanzata di qualche chilometro, l’estremo tentativo di Rommel fu, nella giornata del 7, definitivamente stroncato. La battaglia di Normandia poteva dirsi, in tal modo, definitivamente vinta per gli Alleati; le truppe tedesche, che si erano ostinate nell’estrema difesa di Caen dovevano, poi, esser costrette ad effettuare una difficile ritirata, mentre le forze angloamericane, attraverso la vasta breccia che erano riuscite ad aprire tra la strada Mayenne-Chartres-Parigi e la Loira, iniziavano la loro rapida marcia verso la Senna e la capitale francese.

In Italia, nella stessa estate del ’44 gli alleati liberavano la Toscana e portavano il fronte alla cosiddetta «linea gotica», lungo l’Appennino tosco-emiliano, dove si stabilizzò per tutto l’inverno. I tedeschi erano ormai in ritirata su tutti i teatri di guerra, ma mantenevano l’ordine e riuscirono fino alla primavera dell’anno seguente a non perdere il controllo della situazione, e a non trasformare la ritirata in rotta. Furono i mesi peggiori per l’esercito e la popolazione tedesca. Le città della Germania venivano rase al suolo dalle «fortezze volanti» americane che scaricavano tonnellate e tonnellate di bombe. Nella notte del 13 febbraio 1945 Dresda fu completamente distrutta dalle bombe alleate. In poche ore morirono 230 000 persone in un rogo generale di tutta la città. Fu una strage inutile, perché i sovietici erano ormai a poche decine di chilometri da Dresda e la Wehrmacht era in ritirata. Fu inoltre una gravissima perdita per il patrimonio culturale mondiale, perché una delle più belle città tedesche fu trasformata in un cumulo di macerie. Con l’avanzata delle truppe sovietiche un’enorme migrazione di molti milioni di tedeschi in fuga si riversava verso occidente: un’ondata di profughi che invadeva un paese stremato e totalmente incapace di accoglierli. L’intera migrazione dei tedeschi verso i nuovi confini della Germania postbellica, nel ’45 e nei due anni successivi, ammontò addirittura a quattordici milioni di persone: un’enormità in confronto ai trecentomila italiani scacciati dalla Iugoslavia.

Nella penisola balcanica avanzavano i sovietici. Belgrado fu liberata dai partigiani di Tito e poi occupata dall’Armata Rossa nell’ottobre 1944. Vienna fu raggiunta nella primavera 1945. Nella stessa primavera gli angloamericani entravano in Germania. Insieme con l’Austria era il solo paese europeo dove non c’era stata la Resistenza: quello in cui il nazismo era nato, aveva più profondamente messo radici e aveva potuto eliminare interamente le opposizioni. A differenza dell’Italia, luogo d’origine del fascismo, ma anche grande laboratorio dell’antifascismo, la Germania e l’Austria erano dunque prive di gioia nell’accogliere le truppe di occupazione. I sovietici e gli americani qui non erano stati anticipati dalla ventata della «Liberazione». Invece nelle città italiane e francesi sventrate dai bombardamenti i «liberatori» entravano accolti con sollievo dalla popolazione, spesso con vere e proprie esplosioni di gioia. Portavano la pace e la libertà, portavano cibo, soldi. A Roma l’ex direttore del carcere di Regina Coeli, Donato Carretta, inizialmente scambiato per il questore nominato dalla Repubblica Sociale, il quale aveva fornito ai nazisti gli uomini da fucilare alle Fosse Ardeatine, fu circondato dalla gente inferocita, linciato, gettato nel Tevere e fatto annegare dai bagnanti. La folla poi ripescò il cadavere e lo appese, a sfregio e a monito, alle inferriate del carcere che aveva diretto da vivo. In Francia le ragazze che avevano avuto rapporti coi tedeschi furono aggredite e rapate a zero in segno di infamia. Sia in Italia che in Francia gli episodi di giustizia sommaria si moltiplicarono a migliaia.

Gli Alleati avevano ormai sfondato la «linea gotica» e avanzavano nella pianura padana. Le formazioni partigiane diedero allora l’assalto decisivo alle città e dopo combattimenti, in molti casi assai aspri, entrarono a Torino e a Milano, riuscendo nella maggior parte dei casi a salvare gli impianti industriali prima che i tedeschi potessero farli saltare. Era un evento di grande significato simbolico: i partigiani, in maggioranza comunisti, i lavoratori in armi dunque, avevano salvato le fabbriche che la classe dirigente borghese aveva portato allo sfacelo, affidandole ai fascisti e ai tedeschi, che ora le distruggevano in fuga. Mai come allora la classe operaia si era presentata con le carte altrettanto in regola per diventare la nuova classe dirigente del Paese. Il 25 aprile 1945, settantasei anni fa, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia ordinava l’insurrezione generale di tutti i gruppi combattenti.

Settantasei anni fa dunque l’Italia usciva da una delle pagine più nere della sua storia. Mai come oggi è necessario ricordare quel clima di generale unione e solidità, perché nuove forme di oppressione sono andate via via crescendo negli ultimi decenni. Sia economiche che militari; sia sociali che psicologiche; sia in giro per il mondo che entro i nostri confini. E buona parte di loro sono state amplificate e accelerate dalla pandemia, che ha ulteriormente generato squilibri. Come abbiamo detto nell’incipit del primo appuntamento, «avremmo voluto festeggiare diversamente questo 25 aprile. Avremmo voluto essere fuori (o almeno abbastanza) dal marasma generato dall’avvento Covid-19. E invece siamo ancora alle prese con questa situazione spossante. Avremmo voluto celebrare una rinascita (un’altra) economica e sociale. Ma dobbiamo ancora fare i conti con chiusure e limitazioni». Nell’augurio che questa sia la volta buona: buon 25 aprile ai nostri lettori e alle nostre lettrici.

Di Francesco Mazzariello

Bibliografia:

“Il Novecento”, Paolo Viola, Einaudi;

“Normandia”, Enciclopedia Italiana Treccani – II Appendice (1949).