Vaccino Covid-19: gli effetti sull’economia e i mercati emergenti
29 Dicembre 2020Nella storia della scienza, in meno di un anno si è arrivati dalla scoperta di un nuovo patogeno, il SARS-CoV-2, ad avere a disposizione diversi vaccini per combattere l’infezione. Adesso però inizia un’altra corsa, non meno complessa e delicata: passare dal vaccino alla vaccinazione effettiva, superando ostacoli, distorsioni di mercato, esitazioni e dubbi dei cittadini, nazionalismi e interferenze economiche e geopolitiche. Con il 2021 potranno partire le vaccinazioni della popolazione, in base alle priorità che saranno stabilite nazione per nazione seguendo però una logica comune: operatori sanitari che sono già iniziate da domenica 27 dicembre, residenti nelle case di riposo, addetti ai servizi essenziali, persone anziane e/o con gravi patologie sono quasi dappertutto le categorie in cima alla lista. I vaccini puntano a creare artificialmente nell’organismo umano la risposta del sistema immunitario ad un agente patogeno, che può essere un virus o un batterio.
Nel caso del coronavirus, tutti i gruppi di ricerca impegnati nella messa a punto di vaccini contro il SARS-CoV-2 hanno scelto lo stesso bersaglio: la proteina S o spike, che si trova sulle punte della «corona» che circonda il virus. Il motivo di questa scelta è semplice: è la proteina spike che si aggancia ai recettori delle cellule umane, li «apre» come farebbe un ladro con un mazzo di chiavi false, e fa penetrare in questo modo il virus all’interno della cellula umana. A quel punto il virus prende i comandi della cellula ed inizia a moltiplicarsi al suo interno. Gli anticorpi prodotti naturalmente dall’uomo si attaccano alla proteina S e le impediscono di forzare la serratura dei recettori cellulari, rendendo così impossibile per il virus l’ingresso nella cellula e la propria riproduzione. Ma se l’obiettivo di tutti i candidati vaccini è lo stesso, e cioè far produrre al corpo umano una risposta immunitaria contro la proteina spike, diverse sono invece le strategie che si utilizzano. Il sistema più tradizionale e consolidato è quello di inoculare il virus stesso, inattivato o attenuato: è quello che si fa per esempio con il vaccino contro il morbillo o la poliomielite. In alternativa si inocula l’involucro virale, svuotato del materiale genetico: sono i VLC (virus-like particle o particelle virus-simili), utilizzati per esempio per il vaccino contro il papillomavirus. Infine, si possono iniettare solo le specifiche proteine del virus contro le quali si vuole ottenere la risposta immunitaria, di solito insieme ad una sostanza adiuvante che potenzia la risposta immunitaria dell’organismo. I vaccini contro la pertosse e contro le epatiti A e B sono realizzati con questa tecnologia. Queste tecnologie ampiamente collaudate sono alla base di molti candidati vaccinali contro il coronavirus. Tra quelli già in fase 3, ci sono tre vaccini cinesi e uno indiano basati su virus inattivato, un vaccino canadese basato su VLC, un vaccino cinese e uno americano basato su proteine. Ma l’enorme progresso che hanno compiuto negli ultimi anni le tecnologie bio-ingegneristiche in campo medico ha reso possibili nuovi approcci alla creazione di vaccini. È il caso dei preparati basati sugli acidi nucleici (RNA o DNA), come quelli messi a punto da BioNTech/Pfizer e da Moderna, con i quali viene inserito nelle cellule umane il codice genetico della proteina S. In questo modo è il corpo umano stesso a produrre la proteina contro cui deve essere attivata la risposta immunitaria. Nei vaccini a vettore virale, infine, si utilizza un virus innocuo per l’uomo, per esempio un adenovirus umano o dei primati, si «taglia» dal suo genoma le istruzioni per la replicazione e le si sostituiscono con quelle che codificano la proteina spike. Attualmente ci sono quattro vaccini di questo tipo in fase 3: uno cinese, uno americano, uno russo e uno anglo-svedese. Questa è anche la tecnologia usata dal candidato vaccino ReiThera, che è in corso di sperimentazione presso lo Spallanzani di Roma e che utilizza come vettore l’adenovirus del gorilla. Sono ancora tantissime le domande alle quali solo col tempo potremo dare una risposta: la più importante è se il vaccino protegge dal virus, ma subito dopo ne viene un’altra: quanto dura la protezione? Gli anticorpi che neutralizzano la proteina spike, non importa se prodotti dall’organismo in risposta all’infezione o a quella «simulazione» di infezione che è il vaccino, tendono a ridursi nel tempo, man mano che l’evento infettivo si allontana. Per garantire una immunità di lunga durata occorre quindi la memoria delle infezioni passate: accanto alla «immunità umorale» garantita dagli anticorpi neutralizzanti prodotti dai linfociti B, ovvero le truppe di prima linea contro le infezioni, ha grande importanza anche la «immunità cellulo-mediata», garantita da un altro tipo di globuli bianchi, i linfociti T, che quando l’infezione si ripresenta tirano fuori gli «stampi» usati nel passato e, in sinergia con i linfociti B, favoriscono la rapida produzione di nuovi anticorpi. Un vaccino che stimola una risposta robusta e ben coordinata del sistema immunitario ci garantirebbe una immunità a lungo termine e l’assenza di infezioni, mentre una risposta più debole o meno coordinata renderebbe possibile la reinfezione ma si spera ridurrebbe comunque i sintomi e la severità della malattia. Solo il tempo e il follow-up sulle vaccinazioni ci dirà quale vaccino, o quale tipo di vaccino, attiva al meglio questa sinergia virtuosa tra i linfociti B e i linfociti T e garantisce la copertura più estesa e duratura contro l’infezione. È evidente però che più vaccini avremo, e di più tipologie, maggiore sarà la probabilità di ottenere una immunizzazione consistente e duratura. Non esiste alcun farmaco privo di effetti collaterali: il principio in base al quale si assume una medicina è che i suoi benefici devono essere maggiori dei rischi o degli effetti indesiderati.
Nel caso dei vaccini, vanno attentamente pesati i benefici della vaccinazione e i rischi che ci si assume vaccinandosi o non vaccinandosi. Su un milione di vaccinati contro la polio da uno a tre sviluppano una polio paralitica da vaccinazione, ma in numero infinitamente inferiore a quelli che riporterebbero danni permanenti o addirittura la morte non vaccinandosi. Chi si vaccina contro il morbillo ha un rischio di contrarre l’encefalomielite post-morbillosa compreso tra un caso su centomila e un caso su un milione; per chi non si vaccina, il rischio è di un caso su duemila. Di solito il processo di realizzazione di un vaccino, dagli studi in vitro sino all’approvazione, richiede in media tra i cinque e i dieci anni; nel caso del SARS-CoV-2, questi tempi sono stati accorciati a sei-dodici mesi. La fretta è nemica del bene, dicevano i nostri nonni: è questo anche il caso del vaccino contro il coronavirus? La risposta è no, per una serie di motivi. Il primo è l’enorme interesse che si è concentrato sul virus e sulla pandemia da parte degli scienziati di tutto il mondo, che si sono tuffati nello studio di questo virus in una quantità e con una intensità mai viste prima di oggi, trasferendo nella ricerca sul vaccino tecnologie e metodi messi a punto per altri campi. La tecnologia del RNA messaggero, per esempio, sino a oggi era finalizzata prevalentemente alla messa a punto di farmaci oncologici. Anche i progressi della tecnologia, è ovvio, hanno giocato un ruolo importante: i sistemi bioinformatici che consentono il sequenziamento del virus oggi sono quasi una routine di laboratorio, e le tecniche di ingegneria genetica, tanto avversate da chi studia solo sui social media, hanno aperto orizzonti impensabili solo pochi anni fa. Un altro fattore che ha reso più rapida la ricerca sui vaccini è stata la condivisione del sapere tra gruppi di ricerca di tutto il mondo, che hanno messo a fattor comune le proprie conoscenze, in una competizione virtuosa che ha permesso la costruzione di evidenze sempre più solide su un patogeno che all’inizio del 2020 era totalmente sconosciuto. Il 10 gennaio, dieci giorni dopo la prima notifica fatta all’OMS dalla Cina dei primi casi di polmonite a Wuhan, il virus era già stato isolato e il suo genoma sequenziato; passati altri 42 giorni dalla pubblicazione della sequenza, le prime fiale del vaccino Moderna erano già disponibili per la sperimentazione clinica.
Ma la ragione più importante di questa accelerazione è di natura squisitamente economica. I governi dei paesi più ricchi e potenti, Cina, USA, Russia, Unione Europea, hanno investito sul vaccino tantissimi soldi, finanziando a fondo perduto le società biotecnologiche che avevano i candidati più promettenti, e impegnandosi ad acquistare miliardi di dosi di vaccino prima ancora di sapere se le sperimentazioni sarebbero andate a buon fine e se quei vaccini sarebbero mai esistiti: la sola Unione Europea ha firmato contratti di opzione per quasi due miliardi di dosi di vaccino, mentre il governo americano con la sua «Operation Warp Speed» a fine ottobre, secondo quanto riportato da Bloomberg, aveva già erogato 10,75 miliardi di dollari a sei società farmaceutiche e ulteriori 1,6 miliardi a fornitori di fiale, siringhe e altri prodotti e servizi strategici per la produzione dei vaccini. Molti paesi emergenti, tra cui la Russia, il Brasile, la Turchia, l’Argentina, la Cina e l’India, hanno sofferto particolarmente il periodo di crisi dettato dalla pandemia, e crediamo che stiano avendo difficoltà nel ripartire. Infatti, la sfiducia degli investitori nei mercati emergenti, ha portato le attività sottostanti a valori molto bassi. Quando il valore di mercato di un’azione, per esempio, è più basso del suo valore contabile, si presume che acquistare sia tendenzialmente una buona scelta. Ad oggi, però sosteniamo che questo non sia l’elemento principale a determinare se acquistare o meno nei mercati finanziari emergenti. Infatti, crediamo che la performance di breve e medio periodo di un investimento nei mercati emergenti derivi fondamentalmente dalla commercializzazione del vaccino nei prossimi tre mesi. Da un punto di vista economico quindi si ritiene che fino a quando i vaccini non consentiranno un ritorno alla normalità, l’economia continuerà a operare in un ambiente di restrizioni e ben al di sotto del suo potenziale, e i nervi nei mercati continueranno a fior di pelle”.
In questo contesto, “le misure di sostegno del governo continueranno a essere fondamentali per preservare la capacità di produzione. Le banche centrali dovrebbero concentrarsi sul rilancio delle finanze statali e la combinazione di politiche fiscali e monetarie dovrebbe stimolare i mercati finanziari. Se confermata, la prospettiva di una fine della crisi potrebbe spingere più in alto il valore degli asset di rischio, visto il persistente andamento dei tassi di interesse ultra-bassi”.