Terremoto 23 novembre 1980: la testimonianza
23 Novembre 2020In merito ai quarant’anni dal terremoto dell’Irpinia, riportiamo qui una testimonianza inviataci riguardo quel tragico giorno.
Nel 1980 ero un giovane medico e mi specializzavo in psichiatria alla Federico secondo di Napoli.
La medicina l’ho imparata all’ospedale san Camillo, prima che fosse istituito il sistema sanitario nazionale e le persone non avevano ancora diritto alla salute, così gli ospedali erano l’ultima frontiera: l’anticamera della morte.
Penso che realisticamente si perdesse un paziente a settimana. Edema polmonare: salasso, lacci e strofantina endovena, ma io non ci ho mai fatto il callo.
E allora perché precipitarsi in irpina a meno di 24 ore dal terremoto? Perché c’era bisogno.
Non immaginavo una simile ecatombe, mio figlio mi ha chiesto se avevo delle foto, per lui è normale ma nel 1980 non esisteva lo smartphone, le voci viaggiavano con la teleselezione.
Così le immagini sono filtrate dai primi ricordi, il fuoco ad un metro, macerie, pulviscolo viscido, fango, oggetti personali – uno spazzolino, un biberon rotto – un lembo di un vestito, una mano, un viso calcificato.
Disperazione e sgomento se si incontra lo sguardo di un vivo.
Percezioni
Prima il freddo, poi l’odore rarefatto dal freddo, ma sempre lo stesso odore dolciastro.
Ero a bordo di un pulmino della protezione civile internazionale, partito da Roma la sera prima. Eravamo tutti medici, un pediatra (l’illustre prof Brunetto Boscherini, che già conoscevo), un chirurgo toracico, un altro collega di cui non ricordo la specialità ed io.
Attrezzature mediche, chirurgiche e alimenti per bambini rimediate da ciascuno di noi. Un viaggio al buio interminabile, il tardo e lento schiarire del giorno, avvicinandoci ci mostrò Sant’Angelo dei Lombardi.
Il paese non c’era più
Solo una montagna di macerie indistinguibili
Non più una strada tracciata, solo rovine.
Le case antiche per lo più collassate, le costruzioni in cemento armato intatte, staccate dalle fondamenta appoggiate in orizzontale l’una sull’altra.
C’era solo da scavare.
Senza pale, senza ruspe, scavare con le mani bagnate, gelate: scavare per estrarre corpi. Tra le macerie si trovava una padella o un coperchio e si scavava con quella.
C’erano tantissimi soldati di leva, sbigottiti, sconvolti
Alcuni parevano impazziti
A Mezzacosta c’era stato l’ospedale. Non ricordo di aver visto nessuno estratto vivo.
L’orrore peggiore quando fu raggiunto il reparto di maternità.
Abbiamo scavato come tutti, per trovare qualcuno ancora in vita, per un giorno intero. Invano
Alloggiavamo insieme, soccorritori e superstiti in un enorme ospedale collocato nel nulla dell’avellinese, pronto ma in attesa del taglio del nastro. Quella struttura ci accolse tutti, al coperto con luce ed acqua. Nella notte si susseguivano le note scosse di assestamento, 6-7 gradi della scala Mercalli. La mattina i cerotti applicati alle crepe erano tutti aperti
Dopo 72 ore dal sisma furono estratti vivi solo qualche vecchietto-vecchissimo, così la nostra equipe multidisciplinare ante-litteram, aveva salvato una vita.
Era una donna molto anziana, con uno pneumo-torace traumatico. Diagnosticato ovviamente con la sola auscultazione.
Ci siamo costruiti l’attrezzatura necessaria, un lungo ago, una bottiglia di Boulen per estrarre l’aria dal torace e permettere al polmone di riespandersi e farla finalmente respirare.
LA signora si è salvata.
Non credo di averle chiesto il nome: non tirava aria di convenevoli.
Ricordo che il nostro pulmino fu assaltato da una banda di uomini armati mascherati, in cerca di affari in quell’apocalisse. Niente da poter rivendere quindi via libera per perlustrare quella terra spoglia e congelata, con qualche casolare distrutto e con le stalle, animali feriti da abbattere.
Un uomo rimasto solo sbigottito che ripeteva dei suoni in una lingua incomprensibile
Quale conforto in quel gelo fetido?
Poi sono arrivati gli aiuti, le attrezzature. Quelli che ricordo venivano dalla Germania e le strade di campagna si riempirono di cartelli di segnalazione in tedesco.
Fummo forniti di giacche a vento, calzini di lana, e scarponi, che poi abbiamo restituito.
Con l’arrivo dei tedeschi, pensammo che non ci fosse più bisogno di noi, dei nostri alimenti per bambini e pannolini e decidemmo di tornare a Roma.
Non ricordo nemmeno quanti giorni siamo rimasti.
Non so perché siamo tornati in treno da Napoli, seduti per terra, avevamo di nuovo voglia di scherzare.
Ero piena di dolore e rabbia.
Avevo partecipato alla mia guerra, incontrando una terra traumatizzata della quale non riuscivo ad immaginare una normalità così lontana da quello che avevo conosciuto sino ad ora.
Lo squallore di quella landa desolata abitata da persone incomprensibili sfruttate, ignoranti.
Scrissi quindi un articolo indignato per il quotidiano Il manifesto.