23 novembre 1980: i novanta secondi che hanno cambiato la nostra vita
23 Novembre 2020Era una bellissima domenica di novembre, riscaldata da un caldo tepore autunnale.
Alle 19.35, mentre tutte le famiglie erano riunite in casa per prepararsi alla cena (magari con il sottofondo della sfida tra Inter e Juventus trasmessa alla televisione), una forte scossa di terremoto del X grado della scala Mercalli, colpì il territorio campano. Fummo trascinati in un movimento ondulatorio che durò per novanta lunghissimi secondi. Il terrore e l’angoscia si impadronirono di ciascuno di noi: ci riversammo per strada, rimanendo all’addiaccio per tutta la notte. Molti trovarono rifugio nelle macchine, altri preferirono restare svegli, in ricoveri di emergenza.
Ancora non si conosceva la tragica realtà: l’Irpinia e alcune zone delle province di Potenza e Salerno erano state letteralmente devastate, erano morte quasi tremila persone. I paesi maggiormente colpiti furono Conza della Campania, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Laviano, Santomenna e Castelnuovo di Conza, ove, nel corso dei giorni, venne identificato l’epicentro del sisma.
Nelle ore e nei giorni successivi si produssero nuove scosse che provocarono altri ulteriori danni e man mano la tragedia si manifestò in tutta la sua portata; non era facile neanche raggiungere i paesi devastati, perché le vie di comunicazione erano tutte interrotte, tanto che “il Mattino di Napoli” esternò l’angoscia di tutti con un titolo enorme: FATE PRESTO. E a molti di noi ritornano in mente le immagini della visita nelle zone colpite da parte dell’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini.
Particolare emozione e partecipazione provoca il ricordo del caso della chiesa di Santa Maria Assunta di Balvano, dove il parroco, credendo di proteggerli, riunì i suoi concittadini; ma la chiesa, già parzialmente danneggiata, ad un sussulto successivo crollò, provocando tra l’altro la morte di 65 bambini. Fu cancellata così una intera generazione. Il Sindaco dell’epoca, per rendere omaggio alle vittime, scrisse una poesia, ripresa persino dalla stampa internazionale, che vogliamo qui riportare:
“Nell’aria immobile del primo inverno
Freddo livore di luce
Ombre lunghe di luna piena
Sussulti improvvisi di terra impazzita
Pietre di morte sulla mia gente.”
Mentre i superstiti e gli sfollati venivano sistemati nei campi di roulotte e nelle tende allestite dall’Esercito (degno di rilievo è che alcuni abitanti di case dissestate vivono ancora in baracche prefabbricate), si verificarono altri crolli, con ulteriore aumento del numero delle vittime: a Napoli crollò un edificio di case popolari alto 33 metri, in Via Stadera; crollarono anche i solai del Real Albergo dei Poveri; a Baronissi, in provincia di Salerno, si ebbe un altro crollo di edificio ‘popolare’. A morire furono anche moltissimi bambini: una tragedia nella tragedia.
Per fortuna, in quell’occasione l’intervento dello Stato non si fece attendere: furono stanziate ingenti cifre a beneficio della popolazione delle zone interne della Campania e della Lucania, e si realizzarono nuove infrastrutture, nonché nuove industrie tuttora operanti, con ricadute positive in tutti i territori circostanti.
Anche il mondo dell’Università non esitò a collaborare: in particolare, la Facoltà di Ingegneria di Napoli organizzò squadre di tecnici con a capo docenti esperti di Ingegneria sismica, al fine di valutare i danni degli edifici di aree quanto più vaste possibili ed inserirli in opportune schede tecniche.
E ciò fece emergere una serie di storture.
Premetto, a titolo di personale considerazione, che la tecnica delle catene, utilizzata per il terremoto del 1930, salvò molti edifici in muratura dell’abitato di Napoli; laddove qualche perplessità sussiste in ordine alla valenza strutturale della tecnica applicata dopo il terremoto del 1980: i massivi interventi effettuati in seguito al verificarsi dei danni, infatti, non furono sempre sottoposti a verifiche e talvolta vennero realizzati anche da imprese non del tutto qualificate per certi tipi di intervento.
Ma ciò che più colpisce è quanto emerge dalle perizie dei consulenti tecnici d’ufficio depositate in tribunale. Mi soffermo specificamente sul crollo dell’edificio di Via Stadera e di quello di Baronissi.
L’edificio di Via Stadera, realizzato negli anni ’50, aveva un’ossatura alta 33,8 0metri dal piano di campagna (altezza non affatto consueta). Per tale motivo, avrebbe dovuto essere oggetto di maggior riguardo da parte degli enti appaltanti e di maggiore cautela da parte degli esecutori. L’impressione che si ricava da tutto il complesso di atti e documenti è di sconcertante sottovalutazione degli aspetti tecnici dell’appalto. Si può così spiegare come si è arrivati fino alla trasgressione in cantiere delle più elementari norme del buon costruire, addirittura delle regole dettate dal solo buon senso (quale è stato ad esempio l’accumulo sistematico dei rifiuti ai piedi dei pilastri prima dei getti, rompendosi quindi la continuità dell’ossatura che non ha avuto alcuna possibilità di opporsi all’evento sismico). Fra l’altro, mancavano i certificati di prova sui materiali di costruzione ed a conferma di quanto detto, vi è la documentazione relativa al fabbricato a torre n. 2 (identico a quello crollato): vi sono i certificati di prova che portano a risultati assolutamente inaccettabili (media al di sotto di 100Kg/cmq) senza che ciò abbia provocato alcun provvedimento da parte degli enti appaltanti e degli esecutori. Se a questo si aggiunge la superficialità con la quale sono state fatte le verifiche delle azioni orizzontali del vento, unita alla irrazionale disposizione dei ferri di armatura, si può intuire il perché di tale crollo.
Per l’edificio in Baronissi, va detto che le peculiarità architettoniche e strutturali del fabbricato, pur progettato e realizzato al limite della normativa vigente all’epoca (che prevedeva la sola presenza di carichi verticali), non erano purtroppo in grado di offrire adeguate garanzie di sicurezza nei riguardi delle azioni orizzontali indotte da un terremoto. Le azioni del vento, non prese in considerazione dal progettista, erano di modesta entità. Le caratteristiche negative riscontrate erano essenzialmente le seguenti: A) La forma della pianta dell’edificio stretta e lunga priva di qualunque simmetria, era ricca di parecchie sporgenze e rientranze; B) l’irrazionale distribuzione verticale delle masse che prevedeva un vuoto di circa 3metri in elevazione ed una massa sovrastante tamponata ed abitata e perciò pesante; C) l’assenza di collegamenti in direzione trasversale; D) la presenza di pilastri alquanto sottili, poco resistenti alle azioni orizzontali e la mancanza quasi totale delle travi di collegamento, ha reso l’edificio particolarmente vulnerabile. L’assenza di un adeguato sostegno nella parte posteriore, considerata anche la propagazione dell’onda sismica lungo la Valle dell’Irno in direzione ortogonale alla lunghezza del fabbricato, ha fatto sì che lo stesso si ribaltasse lungo l’asse longitudinale.
A valle di quanto detto, vale altresì la considerazione che gli enti per la costruzione di case popolari effettuavano appalti (inerenti anche alla parte strutturale) a forfait, obbligando le imprese a risparmiare. Questo ha comportato, accanto alla trascuratezza e alla superficialità con cui venivano eseguiti i lavori, che le case popolari, per svariati motivi e carenza di adeguate normative, fossero molto fragili rispetto alle azioni orizzontali (vento e terremoto): queste, dato che gli edifici di cui si è trattato non erano inseriti in zona sismica, ne hanno provocando il crollo o danni irreparabili al limite del collasso.
Come al solito, a pagare il prezzo di tale inadempienze sono sempre i più deboli.
di Mario Pasquino