Open innovation ed economia circolare nell’industria italiana

Open innovation ed economia circolare nell’industria italiana

11 Novembre 2020 0 Di Alessandro Mazzaro

L’open innovation è un approccio all’innovazione in base al quale le imprese si basano anche su idee, risorse e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno, in particolare da startup, università, enti di ricerca, fornitori e consulenti. Il termine, che significa “innovazione aperta, è stato coniato dall’economista statunitense Henry Chesbrough, nel saggio The era of open innovation (2003). Secondo Chesbrough il paradigma della “closed innovation”, ovvero l’innovazione dentro l’impresa, non poteva più bastare nonostante i timori delle aziende di non essere più gli unici “proprietari” delle invenzioni e i legittimi tentativi di tutelare le proprie proprietà intellettuali.

Le modalità concrete con cui si fa open innovation sono: gli accordi interaziendali, il sostegno economico a competizioni per startup, gli hackathon, l’acquisizione, da parte di grandi corporation, di startup innovative, la creazione di corporate acceleratori per le startup, la partnership con università, centri di ricerca e incubatori per innovare su specifici settori. Come già da tempo negli Stati Uniti, anche in Italia l’Open innovation è ormai un ecosistema complesso.

Una sorta di triangolo, il cui primo lato è costituito da un crescente numero di startup che vivono e offrono innovazione: a oggi sono oltre 6.000. Sono, per così dire, il plancton dell’Open innovation. Il secondo lato del triangolo è costituito dagli investitori tradizionali (fondi d’investimento e di Venture Capital), in cui si registra un crescente interesse verso il mondo delle start up.

Il terzo lato è il Corporate Venture Capital (Cvc): il 30% delle start up italiane ricorre a investitori di questo tipo. Il Cvc serve alle corporation per diversificare i propri investimenti, proteggersi da eventuali competitor disruptive, migliorare il core business. C’è al fondo una osmosi virtuosa: le startup innovative hanno bisogno di diventare grandi e le aziende grandi, attraverso il Cvc, hanno bisogno di diventare innovative. Nella ripresa post Covid tutto ciò avverrà e sara efficace solo se avverrà in un contesto di sostenibilità e circolarità. Attivisti, economisti e imprenditori lo stanno dicendo a gran voce. Il cambiamento deve vedere in prima linea le economie occidentali avanzate, Italia inclusa. La pandemia da Coronavirus ha messo alla luce la fragilità del nostro modello di sviluppo economico rendendo evidenti due facce della stessa medaglia: da un lato, l’evidenza che nessun settore è abbastanza solido per resistere a un cambiamento radicale senza un processo di continua innovazione. Dall’altro, la necessità di ripensare all’attuale modello economico in una logica di maggiore attenzione alla sostenibilità e al rispetto ambientale».

Ma un cambiamento di rotta di questa portata, una trasformazione così radicale, non può gravare sulle spalle delle singole imprese. «Servono, da un lato, sostegno a livello economico e finanziario, e dall’altro, la capacità di portare il paradigma dell’open innovation anche nella circular economy: vale a dire, fare in modo che le imprese che hanno bisogno di rinnovarsi per andare verso la circular economy possano entrare in contatto con delle realtà in grado di fornire loro gli strumenti per farlo». Dal primo Rapporto nazionale 2019 sul modello dell’economia circolare realizzato dal Circulary Economy Network, l’Italia è prima in Europa in questo ambito: con un punteggio di 103, batte il Regno Unito (90 punti), la Germania (88), la Francia (87) e la Spagna (81).

Secondo il rapporto “La bioeconomia in Europa”, realizzato dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, in collaborazione con Assobiotec e il Cluster SPRING, il mercato è già enorme e in Italia vale circa 345 miliardi di euro e due milioni di occupati: numeri che ci mettono al terzo posto in Europa alle spalle di Germania (414 miliardi) e Francia (359 miliardi). «Ma dal punto di vista normativo la legislazione del settore è ancora agli albori. Dopo anni di discussioni, ancora oggi tutto il tema dei rifiuti viene trattato secondo specifiche normative su base regionale o comunale, quando invece l’obiettivo finale sarebbe quello di far scomparire le discariche per trasformare gli scarti in materie prime seconde. Motivo per cui è necessaria una disciplina chiara che tratti i rifiuti come un bene produttivo». A riaccendere i riflettori sull’economia circolare sono i piani di rilancio dell’economia presentati dalla task force di Vittorio Colao e dal governo.

«È proprio dal sostegno da parte delle istituzioni che in Italia dovrebbe passare il rilancio dell’economia basato su un modello circolare: norme chiare, meno burocrazia e soprattutto un piano di incentivi: non solo da parte dello Stato, ma anche con il sostegno del comparto creditizio come quello offerto da Intesa Sanpaolo con un plafond da cinque miliardi di euro», nota il manager. «Le risorse economiche così raccolte andrebbero poi catalizzate per avviare progetti di innovazione di largo respiro, attivando i capi filiera delle principali industrie italiane. Solo così si può pensare di riuscire a trasformare un intero ecosistema verso un modello virtuoso di recupero di materiali, capace di creare occupazione sul territorio sostenendo la ripresa economica. La chiave di volta sarebbero investimenti nel campo dell’innovazione: dotato del giusto sostegno, il capo filiera avrebbe la forza di sostenere il cambiamento, fidelizzando la propria filiera e rendendola più solida. Le aziende hanno ormai compreso che non si tratta di costi, ma di investimenti premiati dalla Borsa, tuttavia a mancare sono ancora le competenze per governare il cambiamento. Ma queste si possono acquisire attraverso l’open innovation, che abilita l’accesso alle idee esterne, in particolare quelle sviluppate da startup innovative. Perché non si possono avere al proprio interno tutti gli strumenti per cambiare. Serve allora, come detto all’inizio, la capacità di portare il paradigma dell’open innovation anche nella circular economy, perché nessuno è in grado di affrontare da solo la complessità dei temi e delle frontiere che portano cambiamenti del genere».

di Emanuela Di Rauso