Il 19 luglio 1992 moriva Paolo Borsellino

Il 19 luglio 1992 moriva Paolo Borsellino

19 Luglio 2020 0 Di Alessandro Mazzaro

Cos’è il fil rouge? Secondo una leggenda di origine cinese (diffusa anche e soprattutto in Giappone) chiunque ha, dalla nascita, un filo rosso annodato al mignolo della mano sinistra. Con questo filo, invisibile, lunghissimo e indistruttibile, siamo legati alla nostra anima gemella, con cui siamo destinati, prima o poi, a unirci. Cinquantasette giorni fa abbiamo ricordato, con un nodo allo stomaco, la scomparsa di Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992. Quel giorno però, nonostante la leggenda, si spezzò il fil rouge che legava il destino del magistrato vittima della strage di Capaci e quello di Paolo Borsellino. Esattamente ventotto anni fa, probabilmente quel filo è stato ricucito altrove, dove il tempo e gli uomini (i peggiori, s’intende) non possono più reciderlo.


Ma ripartiamo da dove ci eravamo, ahinoi, lasciati. Dall’ultimo istante. Sono le 17.58: un frastuono inaudito, un intero lembo di autostrada che si solleva, una nube nera. Conseguenza dei 400 kg di esplosivo piazzati da Cosa Nostra in un tunnel di scolo per l’acqua sotto il tratto di autostrada che va dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. A lasciarsi la pelle sono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro; a cui si aggiungono 23 feriti. È la violenta reazione della mafia al maxiprocesso di Palermo che, nel 1986, vide coinvolti 456 imputati e che terminò con l’ergastolo dei principali capi di mafia. Processo che fu seguito, nel 1991, dall’istituzione di due nuovi organismi d’indagine: la Direzione investigativa antimafia (DIA) e la Direzione nazionale antimafia (DNA). Riguardo il 23 maggio, abbiamo scritto che quel giorno «non morirono “soltanto” cinque persone. Iniziò ad affievolirsi sensibilmente una fiamma, fino a spegnersi, probabilmente, 57 giorni dopo, con la scomparsa di Paolo Borsellino. Quel giorno iniziò a sbiadire l’ipotesi che a tratti era possibile sostenere, e cioè che la lotta alla mafia fosse qualcosa alla nostra altezza. All’altezza di tutti. Perché quegli esempi non erano “nient’altro” che uomini». Oggi ricorre il ventottesimo anniversario della scomparsa dell’altro personaggio simbolo della lotta alla mafia. Dell’altra metà della compagine più simbolica nell’immaginario comune quando si pensa alla lotta alla malavita organizzata: il summenzionato Paolo Borsellino.
Non c’è nessuno per strada in Via D’Amelio. Sono quasi le 17 e Paolo Borsellino scende dalla sua auto scortata. Si avvicina al portone di casa della madre. Avrebbe voluto fargli visita quella domenica, com’era solito fare. Ma un fragore rintronante ferma il tempo. E quando riprende a scorrere, a sopravvivere c’è solo la devastazione, risultato di una Fiat 126 caricata e fatta esplodere con più di 90 chilogrammi di esplosivo. Nell’accaduto persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque giovanissimi ragazzi della sua scorta: Agostino Catalano, 43 anni, Walter Eddie Cosina, 31 anni , Vincenzo Li Muli, 22 anni, Emanuela Loi, 24 anni e Claudio Traina, 26 anni. Venti giorni prima, in un’intervista, fra le altre cose, commentando la morte di Falcone disse «convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano», citando così quello che gli disse Ninni Cassarà quando si stavano recando assieme sul luogo dell’uccisione di Beppe Montana. Straziante ma puntualissima profezia.


Cesare Pavese, ne “I dialoghi con Leucò”, scrisse che «l’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia». Coltivare un ricordo vivo e sincero di quello che hanno rappresentato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, cercando, ognuno a modo suo e secondo la propria portata, di seguire quella scia, può essere davvero l’unica chiave di volta per far sì che una rivoluzione parta dal basso. In particolare dovrebbero essere i giovani a eternare le figure di uomini come Falcone e Borsellino. D’altronde proprio quest’ultimo sosteneva che «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo». E per vincere il timore di una lotta che sembra esserci fuori portata, magari ricordiamoci che «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola».

È infine doveroso rendere onore alle vittime meno note di episodi che hanno violentemente scosso la coscienza di una nazione intera. E lo facciamo con un estratto di Signor tenente di Giorgio Faletti, che invitiamo a riascoltare.

“[…]

E siamo stanchi di sopportare
Quel che succede in questo paese
Dove ci tocca farci ammazzare
Per poco più d’un milione al mese
E c’è una cosa qui nella gola
Una che proprio non ci va giù
E farla scendere è una parola
Se chi ci ammazza prende di più
Di quel che prende la brava gente
Minchia signor tenente
Lo so che parlo col comandante
Ma quanto tempo dovrà passare
Per star seduto su una volante
La voce in radio ci fa tremare
Che di coraggio ne abbiamo tanto
Ma qui diventa sempre più dura
Quando ci tocca di fare i conti
Con il coraggio della paura
E questo è quel che succede adesso
Che poi se c’è una chiamata urgente se prende su
E ci si va lo stesso
E scusi tanto se non è niente
Minchia signor tenente
Per cui se pensa che c’ho vent’anni
Credo che proprio non mi dà torto
Se riesce a mettersi nei miei panni
Magari non mi farà rapporto
E glielo dico sinceramente

Minchia signor tenente”.