L’evoluzione dell’imprenditorialità femminile

L’evoluzione dell’imprenditorialità femminile

11 Gennaio 2021 0 Di Alessandro Mazzaro

L’imprenditorialità rappresenta una componente importante del settore imprenditoriale a livello globale. L’imprenditorialità viene tradizionalmente ritenuta, a livello internazionale, un’attività tendenzialmente maschile. Gli uomini sono ritenuti soggetti maggiormente propensi al rischio rispetto alle donne più abili nell’interpretare e nel saper gestire i fattori di natura prettamente economica prettamente economica, come ad esempio l’andamento dei mercati o l’accesso al credito e con abilità e competenze maggiormente in linea con quanto necessario per maggiormente in linea con quanto necessario per un corretto svolgimento dell’attività imprenditoriale. La situazione è cambiata attraverso l’evoluzione dell’imprenditorialità a livello globale che è avvenuta attraverso tre fasi:
1) La prima fase si basa sul principio di uguaglianza di diritti e di opportunità fra gli individui. Tale principio trova espressione nell’articolo 119 del Trattato di Roma del 1957, che richiede parità salariale e di trattamento tra lavoratori e lavoratrici. Questo documento, punta più a creare una competizione economica non distorta, che a promuovere una maggiore giustizia sociale;
2) La seconda fase, invece, ha inizio dopo un decennio di sostanziale inattività, dovuta alla contrarietà di alcuni Stati di intervenire su questioni non strettamente economiche. In questo momento, l’intervento comunitario muove dallo scopo di creare condizioni di uguaglianza di genere, mediante una strategia di azione positiva. Il risultato è l’attuazione del primo Programma d’azione per la pari opportunità per il periodo 1982-1985, seguito da un secondo per il periodo 1986-1990 e da un terzo per il periodo 1991-1995. Agli ultimi due periodi si riferiscono ai programmi d’azione volti alla promozione dell’imprenditorialità femminile. Ai primi anni ’90 risale anche il Trattato di Maastricht (1992), con cui l’Europa stabilisce una base minima di tutela lasciando agli Stati membri la libertà di adottare misure complementari positive a favore delle donne relativamente al mercato del lavoro ed al trattamento sui luoghi di lavoro.
3) La terza fase si ripropone di modificare la struttura organizzativa pubblica, che oltre a non essere mai stata neutra da un punto di vista di genere, ha anche contribuito ad alimentare le disuguaglianze tra i sessi. La strategia opportuna, dunque, è quella del gender mainstreaming sottoscritta alla IV Conferenza Mondiale di Pechino del 1995 che implica la sistematica integrazione della prospettiva di genere in ogni area di politica pubblica. Ciò richiede tempi lunghi, unitamente allo sforzo di valutare le diverse condizioni ed esigenze dell’uomo e della donna in sede di assunzione di decisioni relative ai settori chiave dell’occupazione e mercato del lavoro, piccola impresa ed impresa familiare, istruzione, formazione e gioventù, diritti delle persone, cooperazione allo sviluppo, ricerca e scienza, informazione riportati nella Comunicazione della Commissione Europea numero 67 del 21.2.1996. Il mainstreaming di genere è l‘asse portante del quarto Programma 1996-2000 e del Trattato di Amsterdam (1997). Gli articoli 2 e 3 del Trattato stesso identificano nelle pari opportunità insieme all’imprenditorialità, all’adattabilità ed all’innovatività e ai riferimenti imprescindibili di qualunque politica comunitaria; gli articoli 13 e 14, inoltre, contengono indicazioni per combattere le discriminazioni basate sul genere.

Un aspetto non secondario è quello riguardante la conciliazione tra lavoro ed attività di cura familiare. I dati relativi all’Italia evidenziano l’influenza non trascurabile che l’avere figli influisce sulle probabilità di trovare un impiego. Le donne con figli in età prescolare hanno, secondo i più recenti dati Istat, una probabilità di lavorare di oltre il 30% inferiore rispetto alle donne che non hanno figli. Se si guarda in dettaglio il numero di figli, emerge, inoltre, che il tasso di occupazione delle donne con un figlio è di circa il 4,5% inferiore a quello delle donne senza figli. Questa distanza aumenta per le donne con due figli pari a circa il 10% e raggiunge il picco del 22% per quelle donne con tre o più figli. Nello specifico caso italiano, due sembrano essere i fattori chiave nel determinare le difficoltà occupazionali per le donne con figli:
1) una limitata disponibilità di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. Ad esempio, molto scarsa, nonché estremamente eterogenea, è la disponibilità, su scala nazionale, di servizi a sostegno della prima infanzia come asili nido. La copertura nazionale per tali servizi varia, infatti, da regione a regione, passando da una copertura di circa il 30% in regioni del Nord Italia quali l’Emilia-Romagna, a situazioni come quella della Campania in cui tali servizi sono garantiti a meno del 2% della popolazione.
2) Una debole e sfavorevole divisione del lavoro domestico tra uomo e donna, con conseguente sensibile riduzione delle ore di lavoro pagate per le donne con figli e, per contro, un aumento nelle ore di lavoro pagate per gli uomini.

Ancora, la decisione di iniziare un’attività imprenditoriale propria sembra essere strettamene collegata al desiderio della donna di ottenere maggior indipendenza e soddisfazione personale. Questo desiderio sembra essere così forte da non venire negativamente influenzato dagli scarsi servizi pubblici e privati presenti sul territorio. Questo dato è peculiare del contesto italiano dato anche il legame fra le motivazioni e il livello di educazione. Le donne che hanno un alto livello di istruzione hanno purtroppo, nel nostro Paese ancora enormi difficoltà ad ottenere posizioni elevate in azienda; pertanto, l’imprenditorialità è vista come strumento per realizzarsi pienamente ed ottenere indipendenza.
Vi sono tre importanti considerazioni:
1) É tempo che le istituzioni politiche prendano consapevolezza del ruolo
propulsivo e trainante rivestito dalle imprese femminili nel nostro Paese e che si
sviluppino strumenti di sostegno adeguati; gli interventi finora realizzati (si pensi alla
Legge n. 21 5 del 1992) sono stati dedicati pressoché unicamente a sostenere il
lavoro femminile, senza tuttavia puntare sull’accrescimento delle capacità e
competenze delle donne per la creazione di impresa;
2) Emerge la necessità che in Italia si rafforzi la presenza di servizi capaci
di aiutare le donne nel bilanciare lavoro e famiglia. Ciò che appare cruciale è, in
particolare, poter garantire che tali servizi siano erogati in modo omogeneo
sull’intero territorio nazionale, al fine di ridurre, se non addirittura, eliminare la doppia
velocità di crescita del fenomeno nel sud e nel nord del Paese;

3) Dall’analisi effettuata emerge una forte attenzione delle nostre imprenditrici
alla formazione. Questo dovrebbe stimolare ad effettuare programmi di formazione dedicati alle donne per svilupparne, in particolare, le capacità e competenze di natura finanziaria. Questo tema sembra essere poi connesso a quello più ampio del rapporto fra donna imprenditrice e banca. La possibilità di migliorare le proprie competenze finanziarie potrebbe infatti aiutare le imprenditrici ad essere più sicure e meno riluttanti ad interfacciarsi con gli istituti di credito.

Di Emanuela Di Rauso