Lo sbarco nella Piana: gli alleati e l’occupazione raccontati da Filippo Moscati

Lo sbarco nella Piana: gli alleati e l’occupazione raccontati da Filippo Moscati

13 Settembre 2020 0 Di Alessandro Mazzaro

 

Di seguito pubblichiamo il capitolo “Medico (quasi) per forza” tratto dal libro “Vecchia Piana, divagazioni e ricordi di un rurale”, scritto dallo scomparso Filippo Moscati (1906-1987) edito da Graficart, nel 1980. Un racconto in presa diretta dei giorni dello sbarco. 

Uno spaccato di vita quotidiana (fra la conduzione di aziende agricole occupate prima dai tedeschi e poi dagli inglesi che lì vi insediarono ospedali da campo e depositi vari, dai mezzi alle armi) descritto con acume ed ironia.

 Una pagina di storia locale, raccontata in prima persona da Filippo Moscati, testimone dei fatti narrati, dottore commercialista e parente del medico santo Giuseppe Moscati.

 

MEDICO (QUASI) PER FORZA

Anche il mio frutteto fece la guerra, all’epoca era proprio un bel frutteto, esteso per circa 16 ettari, composto da tante belle grosse piante, sistemate a squadro, ed in quel fatidico autunno del 1943 presentava una produzione veramente eccezionale.

Si era in zona costiera, potenzialmente bellica.

A valle, quasi sul mare, e al nord, alle pendici delle colline erano le postazioni difensive nazionali, l’azienda era nel mezzo, in zona quasi pianeggiante, qualche chilometro a sud di un vecchio piccolo campo di aviazione civile, nella occasione richiamato anche esso alle armi e riattato. 

I primi ospiti dell’azienda furono i tedeschi che vennero ad impiantare una centrale telefonica capace di comunicare non solo con tutta la rete nazionale ma collegarsi anche con quella estera; questa centrale era presidiata da un nucleo di specialisti dei quali buona parte si esprimeva benino in italiano. 

Particolarmente ricordo il graduato Wolf, dei dintorni di Colonia aveva un carattere allegro e certamente non era un puro ariano perché molti suoi atteggiamenti erano marcatamente latini, veniva dall’Africa ove a contatto dei soldati italiani aveva appreso un po’ della nostra lingua. La disciplina di quel reparto era esemplare, ed anche la correttezza, per la verità. 

Ad una certa ora del pomeriggio veniva distribuito il pasto alla truppa, e ricordo il loro pane scuro forse perché parzialmente di segala, ed una bibita egualmente nerastra, forse un surrogato di caffè. Poi c’era la libera uscita e Wolf veniva scambiare qualche chiacchiera e fumare una sigaretta. 

Capitava quando Wolf era con noi di invitarlo ma regolarmente rifiutava acconsentendo soltanto di tenerci compagnia, ma poi alla vista di insalatiere colme di ortaggi freschi le resistenze di Wolf si attenuavano e scomparivano del tutto quando gli si assicurava che quella cianfrusaglia di patate pomodori, cetrioli qualche peperone, sedani conditi con olio di oliva conteneva molte vitamine, ed allora ingurgitava tutto con voluttà ed impegno veramente teutonico.

Un giorno giunse un nuovo soldatino era un perfetto nordico, tutto biondo, con un’espressione timidamente infantile, Wolf lo presentò, si chiamava Carlo. 

Qualche giorno dopo era domenica, Carlo tutto giulivo mi mostrò una lettera, era della sua mamma; poi si accomiatò facendomi intendere che andava a scrivere ai suoi. 

Quella notte vi fu un’incursione. 

I tedeschi, ad un duecento metri dal loro centralino telefonico avevano sistemate nel meleto le loro tende che risultavano ben occultate dalla chioma delle piante, non così evidentemente una trincea antischegge scavata allo scoperto fra le piante e dall’alto la si doveva certamente scorgere e dovette costituire un richiamo perché durante la cennata incursione un aereo venne giù a bassa quota spezzonando.

 Wolf e Carlo erano in quel momento insieme fuori della loro tenda, ma le loro esperienze erano differenti e mentre il primo, intuito il pericolo, non esitò a tuffarsi in un canale di irrigazione trovando fra le sponde in cemento di esso riparo e salvezza, l’altro rimasto allo scoperto fu ferito in modo grave da una scheggia trovandovi immediata morte. 

Il corpo del giovane, avvolto in una coperta da campo fu la mattina dopo recato altrove, mentre la lettera redatta il giorno prima avrebbe raggiunto l’infelice madre dopo la notizia della fine di colui che l’aveva redatta.

 Dopo quella incursione i tedeschi immediatamente sloggiarono.     Intanto i nostri avevano disposto sulle strade delle piccole piramidi di calcestruzzo, forse con l’intento di ostacolare a mezzo di esse l’accesso di mezzi cingolati, e contemporaneamente si allagavano i terreni verso il mare, ma ciò con l’unico sostanziale effetto di incrementare la malaria.

LO SBARCO

Lo sbarco dei liberatori lo vidi da lontano, dall’alto di un paesino montano dove avevo messo la famiglia al riparo. Fu uno spettacolo indicibile, quello del mare cosparso di centinaia di navi mentre dalla terra polvere e fumo indicavano che laggiù c’era movimento di truppe e purtroppo si combatteva.

La conquista della mia azienda fu effettuata da un caporale americano e la sua pattuglia.

Il massaro Luigi, dopo i bombardamenti che si erano susseguiti lungo la spiaggia fin oltre mezzanotte era riuscito a riposare qualche ora: levatosi di buon mattino si accingeva a recarsi dalle sue bufale allorché scorse l’invasore che accovacciato presso un cumulo di mele cascole andava scegliendone qualcuna per rifocillarsi, altri armati erano accovacciati nelle cunette fiancheggianti un limitrofo stradone.

L’incontro si dovette svolgere alla maniera descritta da Pascarella: «Viva al libertà, semo fratelli»! Del resto luigi era un ex combattente della grande guerra e conosceva le regole belliche. Il caporale chiese: «qui Moscati?», e ricevutane conferma mostrò un cartoncino su cui era stampato qualcosa, ma Luigi era “alfabeto”, cioè non sapeva leggere e scriveva con difficoltà il proprio nome: fu sua figlia che lesse come quelle genti non volevano essere considerate nemici, ma venivano per liberarci.

È straordinario come i “liberatori” fossero minutamente a conoscenza delle nostre cose, e mi accorsi poi di non essere loro del tutto ignoto.

I PROCLAMI

Dopo lo sbarco, per tre giorni, non potei raggiungere l’azienda, al quarto vi giunsi in bicicletta. Passando per Pontecagnano avevo preso visione dei vari “proclamation” che erano affissi ai muri fra essi rammento in modo particolare il n. 8 col quale si vietava ai nostrani latin-lovers di comunque disturbare le donne al seguito sugli eserciti liberatori, pena il deferimento ad un tribunale di guerra e la conseguente possibilità anche di una condanna a morte!

Quando vi giunsi, trovai l’azienda totalmente occupata; vi avevano impiantati tre ospedali da campo e un dental centre, la grande stalla era adibita al ripristino degli automezzi danneggiati, tutti gli appezzamenti erano destinati a depositi vari. Ai mezzi anfibi era stato destinato un vasto parcheggio e un altro più esteso era riservato ai semoventi in attesa di smistamento, mentre un altro grande campo ospitava gli aerei da caccia bisognosi di qualche riparazione su ogni altra superficie libera reparti in attesa di impiego.

All’ingresso di ciascun campo erano cartelli con la scritta “NO ENTRY”, ma luigi era già munito di pass, ed in sua compagnia potei effettuare una ricognizione.

 Luigi era già noto a tutti e con tutti scambiava cordiali camerateschi saluti, anche con un gruppo di ufficiali inglesi cui mi presentò; erano carristi, ma provenivano tutti dalla cavalleria, ed i miei cavalli mi avevano bene accreditato verso di loro. 

Rammento che uno mi disse di essere un assiduo spettatore dell’internazionale di piazza di Siena e ricordava e perfettamente l’ultima prestazione della squadra ippica italiana alla internazionale di Londra, manifestano la propria ammirazione per uno dei nostri cavalieri che aveva montato con particolare perizia un cavallo quasi debuttante, facendolo per giunta ben figurare; per combinazione quel tandem era tutto salernitano, essendo l’ufficiale l’allora capitano Conforti ed il cavallo il suo sauro Romito dell’allevamento Iemma.

Ma eravamo sempre in guerra, ed ogni tanto c’era l’allarme per l’avvistamento di qualche ricognitore tedesco che veniva a dare uno sguardo, allora ognuno impugnava l’arma più vicina e sparava nella direzione dell’importuno, che spesso era fuori gittata dell’arma impiegata, ma veniva egualmente bersagliato con perseveranza.

Il personale dell’azienda mi aveva informato che negli ospedali prestavano la loro opera parecchie ausiliarie che sarebbero uscite per la solita loro passeggiata di lì a poco. 

Memore degli ammonimenti del proclamation, spinto dalla curiosità, volli rendermi conto della posta per tanto minacciato pericolo, ed infatti poco dopo potetti assistere al defilé. 

Rammento l’insistenza di quelle donne per i gatti, i cani, e l’insistenza nel fotografare i nostri bambini con in mano bene evidente i doni che esse facevano, ma per quanto riguarda le minacce dell’editto, altro che giudizio marziale e pena di morte, in più di un caso sarebbe stato più logico parlare di diploma di merito e pensione vitalizia per il coraggio mostrato. Veramente le ondate successive erano composte di effettivi molto più apprezzabili.

 

L’ORA DEL TÉ

Alle 5 del pomeriggio si sospendeva la guerra, era l’ora del The. Arrivava sul piazzale dell’azienda una strombazzante jeep in cui conducente gridava «tì, tì». 

Appena il veicolo si fermava tutti si facevano attorno per ritirare la propria razione. Anche le superdraghenauts che dalla rada accompagnavano con i tiri dei cannoni a lunga gittata l’avanzata delle truppe terrestri, smettevano, alle cinque, gli spari.

 I primi a sostanzialmente beneficiare della liberazione furono i cani che dopo solo alcuni giorni dalla sbarco si erano liberati di tutto l’appetito e le astinenze arretrate tanto da rifiutare decisamente ogni nutrimento a base di farinacei, limitandosi ad accordare il proprio gradimento soltanto al contenuto delle scatolette di carne.

LA CAVALCATA

 Fra i liberatori si era sparsa la voce di un farmer che conosceva qualche parola d’inglese, ed ogni tanto veniva qualcuno ad intervistarmi.  Un giorno una puledra, saltando per conto suo una staccionata si produsse un largo squarcio al ventre; fortunatamente la ferita era solo superficiale, ma al pelle era tutta lacerata e fu necessario tentare una sutura, che fu eseguita utilizzando i pochi mezzi di fortuna di cui si disponeva. 

 

Quando si accorsero che la cavalla veniva operata, tutti gli addetti al reparto che occupava la stalla, nella cui vicinanza era effettuata l’operazione, smisero di lavorare e con attenzione la seguirono, offrendo anche di collaborare. Nella serata un ufficiale di un altro reparto venne a prendere notizie della inferma che desiderò anche visitare.

 Un altro giorno mi si presentò un soldatino “autista” per comunicarmi che il suo cannon voleva parlarmi. 

Era un soldato ben noto in azienda, un tipo vivace sempre allegro, un vero diavolo in continua attività; con la sua jeep, vorticosamente intersecando, una doppia fila di automezzi che procedevano in senso contrario fra loro, mi condusse dal suo colonnello che era il comandante della zona, ed aveva il proprio ufficio in una fattoria poco distante. Quell’ufficiale desiderava soltanto avere la possibilità di fare qualche cavalcata e così lo ebbi mio ospite avendogli messo a disposizione una bella e ben addestrata cavalla; questo fatto, con la gratitudine del comandante mi convogliò il rispetto dei vari suoi subordinati che con i loro reparti occupavano l’azienda che in un certo modo beneficiò di questa contingenza. 

Nel frattempo i liberatori procedevano a liberarmi anche delle mie mele.

Si procedeva come segue: un carro anfibio, accostava sotto un albero, un soldato montava sui rami e li scuoteva provocando lo stacco della frutta; se quella caduta nel carro era stimata bastevole il mezzo si allontanava, altrimenti si ripeteva l’operazione con un’altra pianta; le mele cadute in terra rimanevano là.

Fu appunto durante l’osservazione di questo nuovo sistema di raccolta che fui un giorno interpellato da un maggiore medico inglese che chiestomi se fossi il “doctor” Moscati, alla mia conferma mi pregò di seguirlo, cosa che feci; ci dirigemmo allora verso uno dei grossi tendoni adibiti ad ospedale, ed entratovi fui condotto ad un lettino ove giaceva un ferito dal ventre tutto fasciato. 

IL MALATO

Fortunatamente mi ricordai, in tempo ma con sgomento, che il Inghilterra il titolo di doctor non è come da noi attribuito a chiunque abbia una laurea, ma riservato esclusivamente ai medici.

 Intuii che mi si reputasse uno di essi e che si desiderasse da me qualcosa inerente l’esercizio della medicina, infatti quel degente aveva una serie di piccole ferite al ventre determinate da una scheggia che lo aveva colpito di striscio; il decorso della sua infermità era regolare, solo che da qualche giorno si era verificato un aumento della temperatura che quel sanitario dubitava originata da una eventuale infezione malarica, e così ritenendomi un suo collega, per giunta pratico di malaria, desiderava il mio parere. 

Era troppo tardi per ritirarmi e difficile spiegare la mia posizione, oltre tutto si rischiava determinare sospetti ostili; presi il coraggio a due mani, e dopo aver chiarito che mai avevo esercitato la professione perché sempre e solamente mi ero occupato di agricoltura, feci la mia brava visita che debbo ritenere fu eseguita secondo tutti i dettami della buona tecnica, né trascurai un accurato esame della cartella clinica e relativo diagramma della temperatura. Infine emisi anche il verdetto che ovviamente fu dubitativo; consigliai la somministrazione di atebrin e dieta bianca, specialmente la somministrazione di buon latte fresco, che quel maggiore rammaricò di non avere a disposizione, ma gli venni in aiuto offrendogliene di quello prodotto alla farm, e così all’ora della mungitura due liberatori si presentarono alla stalla e dopo aver militarmente salutato nel modo il più perfetto, esibirono un bidoncino che venne loro restituito colmo di schiumoso latti munto il loro presenza. 

Del mio malato non ebbi più notizie perché dopo due giorni l’ospedale si trasferì, ma spero che sia guarito lo stesso e che questa mia confessione non mi procuri noie con l’ordine dei medici, ma son passati tanti anni, e se reato fu esso è ora estinto.

LA GITA

 Gli inglesi è noto amano molto i cavalli e l’equitazione, ed avendo io le stesse predilezioni, fui da un mio congiunto pregato di accompagnare un ufficiale inglese, suo conoscente, che desiderava fare una cavalcata. 

Era questi un capitano che non senza orgoglio mi rese partecipe che suo padre possedeva scuderia da corsa e che con un cavallo di sua proprietà aveva vinto il gran National di Liverpool, ed egli in esercizio aveva superato tutti gli ostacoli di quel micidiale percorso. 

Montammo nell’azienda di un mio parente per un giro che avrebbe dovuto aver termine nella mia, dove gli amici avrebbero rilevato il loro capitano. 

Era un magnifico sereno, limpido pomeriggio, e la gita fu ampia, varia, credo di piena soddisfazione dell’ospite che alla fine della cavalcata, ne ringraziarmi volle anche complimentarsi con me per la bellezza ed efficienza della mia farm. 

Nel ringraziarlo a mia volta per i suoi complimenti gli feci rilevare che egli stesso all’inizio del nostro tragitto mi aveva mostrato un albero presso la riva del mare, un grosso salice selvatico, e mi aveva riferito che al momento dello sbarco era quell’albero il sito di riunione del suo reparto; di lì si era subito diretto a Salerno che si trovava alla parte opposta della zona battuta dal nostro itinerario, e quella era di conseguenza la prima volta che si trovava in questa parte.

 Ed allora il mio interlocutore mi comunicò che la mia azienda era ben nota non solo a lui, ma a molti altri ufficiali poiché trovandosi poso a sud del campo di aviazione cadeva nell’orbita di osservazione esercitata da quest’ultimo, ed ogni volta che venivano lanciati razzi illuminati era fotografata, a colori per giunta, e le copie di quelle foto erano rimaste a Tunisi.

 Così la guerra aveva fra l’altro anche determinato un riconoscimento straniero alla attività mia e dei miei collaboratori. 

Della guerra mi son limitato a riferire solo qualche episodio fra i meno sgradevoli, e debbo ritenere che qualche altro buon ricordo sia rimasto anche nei dirimpettai di allora, infatti quando tutto fu finito, non mancarono negli anni che seguirono visite di gente che ritornava sui luoghi che aveva conosciuto quando vestiva una divisa.